28 febbraio 2006

ETÀ DEL JAZZ anche in Italia? Strano, ma ci fu proprio sotto il Fascismo.

Tullio Mobiglia Orchestra.(piccola) Nonostante le critiche, più che i divieti, dei giornali del Regime, la musica dei “negri” e degli americani ebbe grande successo in Italia nell’infausto Ventennio. Tutti ascoltavano e ballavano il “jazz”, vero o annacquato che fosse. Anzi, tanto di moda era quel nome o quel ritmo che ogni musica per avere successo doveva essere “jazz-band”. E i gerarchi? E Mussolini? Bastava dire che si trattava di un valzer o una mazurka. Così, con qualche trucco, lo si suonava e ascoltava perfino dopo le leggi razziali e anti-americane, durante la guerra e nell’Italia divisa. E ci furono addirittura generali della Wermacht e fascisti che organizzarono orchestre jazz. E anche i jazzisti, alla radio (radio Bari contro radio Salò), a modo loro “fecero la guerra”…
di  NICO VALERIO *
Romano Mussolini giovane suona il piano (sorella A.Maria) (foto AP)Villa Torlonia (“Villa Mussolini” per i romani d’allora) riportata al suo antico splendore sembra per una curiosa vendetta della Storia una piccola Casa Bianca, con quell'austero frontone, le colonne neoclassiche e l’ampia scalinata tra i vialetti di ghiaia e il verde. Pare impossibile, scomparso Romano, figlio del Duce e pianista di jazz che vi abitò da bambino, che in questa villa neoclassica dal sapore americano siano potute risuonare nello stesso tempo la voce del capo del fascismo e le note del jazz. Anzi, visto lo stile, forse era proprio il papà ad essere fuori posto, non il figlio.
Il jazz in casa Mussolini? Era stato lo stesso Romano a confessarlo: galeotto fu un disco. Già, che ci faceva il 78 giri “afro-demo-plutocratico” Black Beauty del jazzista “negro” e americano Duke Ellington a villa Torlonia, residenza del Duce? Si era nel 1929, e questo era un regalo, non si sa quanto appropriato, di Vittorio Mussolini al fratellino Romano, di pochi anni, che poi sarebbe diventato proprio come Ellington un pianista jazz. E anche il fratello Bruno strimpellava. E qualche volta i figli dei Mussolini facevano dei concertini, ascoltati con ironica benevolenza dal padre, che si dilettava di violino.
Jazz band,copertina libro Anton Giulio Bragaglia (Corbaccio,Milano 1929)Ma il jazz non era vietato dal fascismo? Sì, anzi, no. Per capire quanto il regime, nonostante i toni burberi, fosse di manica larga con la musica di derivazione afroamericana, che non riuscì mai ad estirpare, ecco un eloquente aneddoto raccontato da Nello Di Geronimo, un trombonista jazz così bravo che per anni – racconta lo storico Mazzoletti – i critici credettero che in Stompin’ at The Savoy, del 1938, a suonare non fosse lui, ma "qualche musicista straniero".
A Gela nel ’36 arriva Mussolini, e la sera trova ad accoglierlo l’orchestrina jazz del giovane Nello che suona in stile Jelly Roll Morton, perfino Vivere, la canzone in voga del momento. «Mussolini ce la fece ripetere ventisette volte», ricorda. Poi si avvicina il segretario Alfieri: «Cambiate, fate un valzer, a sua Eccellenza piace il valzer…» E quelli, come se niente fosse fanno un pezzo jazz a tempo di valzer. «Cos’è questo?» si avvicina il Duce con "due occhi così" che fanno paura a Nello. «Un valzer, Eccellenza», balbetta il poveretto. «Bravo, bravo!», disse il Duce. E si mette a ballare pure lui. Il jazz.
Ecco: l’incontro-scontro tra jazz e fascismo fu spesso solo una questione di nomi. Era stato proprio suo figlio Vittorio, che strimpellava il banjo, a importare il jazz (quella "musicazz", quella musicaccia, avrà commentato Donna Rachele in romagnolo) a Villa Torlonia. Lo ricordava Romano, ma lo prova anche la dedica dello studioso ebreo Ezio Levi, che con Giancarlo Testoni pubblica nel 1938 uno dei primi libri sul jazz in Italia: Introduzione alla vera musica di jazz. «Con grata simpatia – scrive sulla copia inviata a Vittorio Mussolini – per avere, tra i primi in Italia, compresa ed apprezzata la vera musica di jazz». Un anno dopo Levi per le leggi razziali è costretto a emigrare negli Stati Uniti.
Introduzione alla vera musica di jazz (picc. corr.) (Ezio Levi-GCTestoni) Di contraddizioni come queste, che mettono a confronto il fascismo, "rivoluzione moderna" del Novecento, come si definiva, con la più rivoluzionaria delle musiche del secolo, il jazz, e dopo il ’38 interrompono anche le amicizie tra appassionati fascisti ed ebrei, è piena la cronaca dell’Italia del Ventennio. Due fenomeni così lontani, il jazz e il fascismo, erano costretti a convivere in un’Italia che li applaudiva entrambi senza capirli davvero. E di questi contrasti Romano, figlio del Duce e jazzista, è stato protagonista e testimone privilegiato.
Oggi che il jazz fosse tabù sotto il fascismo è diventato un luogo comune. Ma, a ben vedere, privo di fondamento reale. C’erano critiche aspre, questo sì, che però cominciarono solo nel ’28. In realtà il costume dell’Italia del Ventennio si rispecchia con le sue ambiguità anche nei rapporti tra jazz e regime. Applaudito, ballato, ascoltato e suonato con entusiasmo per quasi vent’anni dal popolo italiano, tra cui molti erano i fascisti convinti; ma accusato e disprezzato da alcuni giornali zelanti e dall’intellettualità fascista. Che, però, iscrivevano sotto la voce “jazz” perfino il music-hall, la danza charleston, gli spettacoli di varietà nero-americano e la rivista parigina "Revue Nègre" della bellissima e seminuda Josephine Baker, col suo gonnellino di banane.
«Musica ammattita e gambe storte, suoni fischianti, urli di sirene e crepitare di motori", scriveva nel suo libro Jazz band (1929) un Anton Giulio Bragaglia che rifà il verso a Marinetti e sembra parlare d’altro, non di jazz.  Insomma, parole in libertà, futurismo puro. Voi direte: però, con quel titolo, si vede che era d’accordo. Macché, solo per insinuarsi, per far finta di capire, in realtà gli serve per denigrare lo "snobismo anglosassone", la "degenerazione" d’un ideale estetico, la mania italiana ed europea per l’esotismo delle "negrerie". Una posizione reazionaria e cripto-razzista. «Come uomini, ci sia rispetto umano fra tutti, ma poi, che debbano venire i negri a insegnarci cosa è arte, o magari cosa si deve fare come divertimento, be’, questa poi…»
Giampiero Boneschi copertina Cd E poi c’erano i duri e puri, gli ottusi del Regime. «E’ nefando e ingiurioso per la tradizione, e quindi per la stirpe riportare in soffitta violini, mandolini e chitarre – scrive Carlo Ravasio sul Popolo d’Italia ("Fascismo e Tradizione") – per dare fiato ai sassofoni e percuotere timpani secondo barbare melodie che vivono soltanto per le efemeridi della moda. E’ stupido, è ridicolo, è antifascista andare in sollucchero per le danze ombelicali di una mulatta e accorrere come babbei ad ogni americanata». E Critica fascista: «L’America, con il suo jazz sta soffocando le nostre tradizioni» (Adriano Mazzoletti, Il jazz in Italia, Laterza, questa e altre cit.). Proprio quello che i no-global di destra e sinistra oggi dicono, sparlando dell’America, sulle canzoni, le soap opera della tv, i film, il cibo.
Critiche tardive e inefficaci, però, che nessuno leggeva. Il fenomeno jazz nel ’28 è ormai di massa da un pezzo in Italia. Non dimentichiamo che gli Italiani non erano del tutto nuovi alla musica afro-americana. I primi dischi di “musica sincopata” proto o pre-jazzistica si erano diffusi in Italia durante la prima Guerra Mondiale, al seguito delle truppe americane nostre alleate.
Ma ora, dalla metà degli anni Venti, cominciano ad apparire anche le prime registrazioni di jazz italiano, e vero jazz. La Odeon o Fonotipìa dal 1926 inizia a pubblicare 78 giri di gruppi jazz nostrani, come The Mediolana Jazz Band, milanese, come dice il curioso nome anglo-latino.
«Dove si vuole arrivare?», «La misura è colma»: i duri del regime fascista, tra cui il compositore Mascagni, non ne possono più. Ma anziché far vietare da questori, prefetti e polizia, scrivono articoli sulla terza pagina dei giornali. Il fascismo, insomma, è sulla difensiva, ma in fondo tollerante. Si vede che ha già perso la guerra culturale. Tutto preso dal Potere, ha già dimenticato il passato rivoluzionario e iconoclasta del Futurismo modernista, le provocazioni dell’avanguardia, le cacofonie del nuovo strumento "intona-rumori" di Russolo e Pratella, i brani musicali marinettiani come "Macchina tipografica" e "Battaglia di ritmi". Insomma, anche per come tratta il jazz, si direbbe che il regime stia già ripiegando su posizioni conservatrici e piccolo-borghesi, tipiche del perbenismo della vecchia provincia italiana. Delle due componenti originarie ha ormai scelto quella minore e più retriva, il nazionalismo, non il socialismo.
Il fascismo, quindi, non vieta la nuova musica afro-americana, ma ne sparla. Il jazz? «Niente musica e tutto ritmo», scrive il Popolo d’Italia vellicando la sottocultura della provincia italiana. Ma, per quanto aspra, l’opposizione dei polemisti di giornale alla musica negro-americana si mantiene entro i limiti del dibattito. Bisogna riconoscere che mai viene usato il potere per vietarlo, almeno fino alle leggi razziali del 1938 (che discriminano autori e musicisti ebrei) e alla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti nel 1941 (che vietano titoli, nomi e musiche americane). Decreti che, però, furono facilmente aggirati, come vedremo.
Tullio Mobiglia sax Ecco perché il jazz, di fatto, ebbe via libera in Italia, fino al boom, sotto il fascismo, compiendo un’ascesa del tutto parallela a quella del Regime. Paradossi della Storia e della cultura. L’"Età del jazz", musica negra e americana per eccellenza, in piena Italia fascista e nazional-popolare. Soprattutto dal 1924 al 1929, dopodiché il suo filone più commerciale si andò annacquando in forme popolari, di massa.
Da Torino a Milano e a Venezia, da Bologna a Roma (il sud era più emarginato, ma perfino la Gazzetta del Mezzogiorno, di Bari, pubblicò un articolo, critico, sulla "moda del jazz") sembrava di vivere in un romanzo di Scott Fitzgerald, con la gente che impazziva per sassofoni e batterie, trombe e contrabbassi, a far da contrasto con le melodie ritmate dei cantanti. E c’erano impresari furbi che spacciavano un po’ tutto per "jazz-band", come del resto accadeva negli Stati Uniti e in Inghilterra. Un vero boom, anche in Italia, che durò per tutti gli anni Venti e Trenta. Non c’era bisogno di affrontare un costoso viaggio per mare di 5 o 6 giorni sui transatlantici veloci “Conte di Biancamano” o “Rex”, per poter ascoltare la musica di Bix e di Louis negli States.
Mandolino, addio. Agli inizi solo i Reali Carabinieri della banda della Benemerita erano capaci di suonare bene il sassofono, anche se non sapevano fare linee melodiche o tantomeno assoli, ma solo accompagnamento. Poi, a poco a poco, copiando dai dischi importati e dai musicisti americani in tournée in Italia, vennero fuori centinaia di strumentisti bravi. Ed erano richiestissimi perfino quelli in grado di suonare gli strumenti più eccentrici. Come Pietro Sordi, padre del futuro attore Alberto, suonatore di basso tuba.
Il livello tecnico e musicale dei primi musicisti italiani che suonavano vero jazz era dignitoso, anche se la loro fantasia solistica, forse per difetto di modelli musicali, non era paragonabile a quella dei jazzmen d’oltre-Atlantico. Non si sa se per cortesia anglosassone, il violinista Eddie South nel ’31, di ritorno da una tournée in Italia, dichiara al Chicago Defender: «Gli italiani suonano altrettanto bene degli americani». Nientemeno. Il sassofonista Franco Mojoli – raccontò il critico Roberto Nicolosi – impallidì quando ascoltò il clarinetto della big band del nero Andy Kirk, John Harrington: «Ma questo sono io…». Aveva scoperto il jazz con l’orchestra del varietà "Black Poeple", diretta dal grande creolo Sidney Bechet, in tournée a Milano nel 1927.
Altro che "isolati" e "fuori dall’Occidente", gli scambi con l’America sono frequenti. Il jazz è la prima musica "globale", e l’Italia lo riceve, accetta, interpreta e ripropone proprio sotto il fascismo nazionalista. Gli italiani accorrono alle grandi tournées delle orchestre Usa, talvolta inserite in grandi spettacoli di "rivista negra", con decine di cantanti e ballerini, e scene di piantagioni di cotone, battelli sul Mississippi, strade di New York. "Black People", per esempio, tocca Venezia, Bologna, Firenze, Milano e Roma. Quando Louis Armstrong nel ’35 (15-16 gennaio) suona a Torino, al Teatro Chiarella, La Stampa riferisce di una coda lunga tre isolati e di centinaia di automobili parcheggiate. Grande successo e incasso favoloso. Armstrong stesso invia dalla nave, sulla via del ritorno negli States, una curiosa lettera di ringraziamento all’organizzatore torinese Alfredo Antonino. Gli impresari di Milano, che avevano detto no, si mangiano le mani dalla rabbia. Ma i giornali non riportarono recensioni, ha ricordato M. Maletto sul Corriere della Sera. Il critico liberale Massimo Mila, presente in sala (poi esponente di punta di Giustizia e Libertà), ne poté scrivere, e con entusiasmo, solo a Liberazione avvenuta.
E insieme alle orchestre bianche "commerciali" da ballo, alla Jack Hylton, il pubblico arriva a scoprire proprio il vero jazz dei "negri", definito "hot", caldo, dai primi esperti, come Nizza su La Stampa (futuro co-autore con Morbelli, alla radio EIAR, dei fortunatissimi Tre moschettieri). In quegli anni i negri sono di moda in tutt’Europa. Più di oggi. Sarà stato per l’esotismo, per la simpatia popolare per gli etiopici ancora ridotti in schiavitù, di cui profitterà il Fascismo per legittimare l’invasione colonialista (Faccetta nera, di Micheli e Ruccione è del ‘35, e non nasce affatto come canzone fascista, anzi, all’inizio piaceva poco al Regime quella fraternizzazione), fatto sta che proprio sotto il fascismo trionfò per paradosso la tesi del critico bianco francese Hugues Panassié, poi accusato di razzismo al contrario, che aveva messo in testa agli europei che il jazz fosse solo nero.
Giampiero Boneschi Trio copertina CdVerso il ‘35, l’italiana Odeon edita per la sua collana Swing Series una serie di dischi specializzata nel puro jazz, diremmo oggi, divulgando alcune importanti registrazioni di jazzisti americani. La Cetra, a partire dal 1933, ristampa per l’Italia molti brani jazz editi a suo tempo dalla Parlophon.
D’altra parte, perché meravigliarsi, noi Italiani potevamo considerarci per un colpo di fortuna quasi dei “fondatori” del jazz. Gli zelanti giornalisti del Popolo d’Italia non lo sapevano, ma il primo disco jazz della storia era stato inciso il 17 febbraio 1917 da un "paisà", il cornettista Nick La Rocca, italo-americano di New Orleans, figlio d’un siciliano di Salaparuta, con la sua Original Dixieland Jass (così si scriveva all’inizio) Band. Otto anni prima del grande Armstrong, certo più bravo, ma anche meno intrallazzone, e soprattutto negro. A La Rocca oggi i siciliani hanno eretto un busto, hanno dedicato sale di teatro e scritto anche una monografia, a cura di Claudio Lo Cascio ("Nick La Rocca: una storia nel jazz", ed. Novecento).
Ebbene, pochi sanno che in Italia questo disco della ODJB si stampò appena tre anni dopo, nel 1920, dalla Grammofono, ed. it. della His Master Voice o Voce del Padrone. Neanche oggi, in alcuni casi, la musica degli Stati Uniti arriva in Italia con tale “velocità”.
E prima c’erano stati il leggendario Jack "Papa" Laine (George Vitale), leader di varie orchestre poi mitizzato come capostipite del bianco stile Dixieland, e il mitico clarinettista Leon Roppolo (o Rappolo), che tutti i jazz fans del mondo ritengono americani anglosassoni, se non addirittura negri! Il basso-tuba Joe Alexander (Giuseppe Alessandra), nato in Italia, per nostalgia suonava a New York in divisa del Regio Esercito italiano.  Ebbene, questi quattro italiani, i primi tre famosissimi, il secondo sconosciuto, sono tra "i primi musicisti jazz" della storia.
E non parliamo degli anni successivi. Negli Usa centinaia di altri grandi jazzisti di origine italiana, solisti o musicisti di fila, erano attivi negli anni del Ventennio italiano.  Tra questi il violinista Joe Venuti, il chitarrista Eddie Lang (Salvatore Massaro), il sax basso Adrian Rollini, il pianista Frank Signorelli, i sassofonisti Flip Phillips (Joseph Filippelli) e Charlie Ventura. I federali fascisti non lo sapevano, ma il jazz era anche un po’ cosa nostra.
In pieno regime fascista, ad ogni modo, l’Italia esporta musica lirica e importa musica jazz. Il fisarmonicista Gorni Kramer (ma il cognome era Gorni), senza dubbio «il più originale jazzista italiano di quegli anni” (Mazzoletti), ha ricordato che anche nel suo Mantovano gli emigrati italiani che tornavano dall’America al paesello portavano con sé qualche disco di ebanite delle grandi orchestre americane di jazz. E non solo Paul Whiteman e Casa Loma, ma anche i Cotton Pickers, Chick Webb, e chissà anche i solisti di tromba Bix Beiderbecke e Red Nichols, e poi la big band del clarinettista Benny Goodman. Insomma, tutta la storia del jazz di New Orleans, Chicago e New York, il dixieland e lo swing, sono rivissuti in diretta in Italia. Una valanga inarrestabile. Almeno, fino alla sterzata drammatica delle leggi razziali. Dopotutto il Ventennio ha origine nel 1922, ma i divieti per il jazz arrivano solo nel ‘41.
La moda, il consumismo d’allora, il mercato, vuole che ogni cosa sia "jazz". La parola "vende" sul piano del marketing più della stessa musica. Nel 1925 un film americano con l’attrice Gloria Swanson, dall’innocuo titolo "Prodigal Daughter", per ragioni di botteghino è intitolato dal distributore italiano "Jazz-band". Grande successo. E’ seguito in cartellone da un altro film americano dal titolo "Jazzmania", con la Murray. Lo scrittore alla moda di quegli anni, Lucio d’Ambra, ovviamente, sforna subito il suo romanzo dal titolo ad hoc “La repubblica del jazz-band” (1929). Ecco, questi episodi danno un po’ l’idea che la "jazz craze", la pazzia per il jazz così bene ritratta in America dallo scrittore Francis Scott Fitzgerald, esempio di quell’infatuazione collettiva tipica delle società di massa del Novecento, di cui il fascismo conosceva bene i meccanismi, dall’America era passata all’Europa e all’Italia.
Il mercato, per la prima volta, supera ogni ideologia. Neanche il fascismo può farci nulla. E, a parte le centinaia di complessini, l’Italia fascista conta decine di big band, grandi orchestre di “jazz” annacquato (noi diremmo oggi: “musica leggera ritmica para-jazzistica”) specializzate nelle grande musica da ballo e nei veglioni. Un solo esempio, raccontato dal Mazzoletti, è il Gran Veglione di mezza Quaresima, un’usanza oggi sparita, che vede a Torino nel ‘31 la sfida "Super Jazz" con il meglio degli orchestrali del Jazz sinfonico Chiappo, diretti da due direttori diversi in competizione tra loro: una vera "battle" all’americana.
Gorni Kramer copertina cd Anni 30 e 40 Ma ormai l’Italia fascista del jazz ha anche molti bravi solisti. Dopo il 1930 vanno maturando tutta una folta schiera di strumentisti di valore, dal sassofonista Piero Rizza (la sua Louisiana Band nel ’29 aveva inciso i primi otto brani di vero jazz italiano con la Fonotecnica) all’eccentrico pianista Romeo Alvaro, che quando aveva freddo suonava con i guanti. Senza contare i fisarmonicisti Kramer e Beltrami, i trombettisti Marzaroli ("il Bix italiano") e Impallomeni, e i vari Ceragioli, i Di Ceglie, i Trovajoli. Che lavoravano normalmente, davano concerti e guadagnavano. Tutto alla luce del sole. E con tanto di gerarchi fascisti ad applaudire tra il pubblico. L’EIAR si adegua a furor di popolo. Il 3 novembre 1936 alle 17,20 va in onda una trasmissione radio con l'Orchestra di Rizza che propone tutti brani di autori stranieri e molto jazz. A gennaio del 1937 iniziano le trasmissioni dell'orchestra jazz Ramponi. Il 6 aprile furono di scena Kramer ed i suoi solisti. Il quartetto jazz dell'Eiar suona regolarmente tutte le sere alle 20,40. L’orchestra del jazzista Sesto Carlini nel ’38 e ‘39 è ingaggiata anche in Olanda, Londra e New York. Ancora in pieno ’39 in Italia si esibisce un’orchestra internazionale con jazzisti anglosassoni e italiani. Mussolini vuole ancora dimostrare che è Hitler a volere la guerra, ma l’Italia no, è un paese pacifico, pluralista e cosmopolita. Poi, invece…
Dopo il ‘41 quasi sparisce la parola "jazz" dalle locandine. La musica però resta, anche se la censura sulla parola “jazz” è destinata a durare. Ma non scandalizziamoci troppo. Perché in piena democrazia, fino agli anni ‘70 nella RAI democristiana, anzi addirittura fino ai nostri giorni, è stato ed è tuttora difficile, se non impossibile, far passare in radio e televisione la parola "jazz", non solo nei programmi ma ancor più nei titoli. Spesso i funzionari – e sono quasi tutti di sinistra – suggeriscono all’autore umilianti eufemismi, il migliore dei quali è "Quel certo ritmo". Come nel fascismo. Anzi, peggio, perché il fascismo si comportò così solo in tempo di guerra.
E fu così, ma solo allora, che il gruppo dei Three Nigger Boy’s (Kramer Gorni, Enzo Ceragioli e Cosimo Di Ceglie) diventano prima “I Tre Negri” e poi “Tre Italiani in America”, e cambiano titolo a Sonny Boy (“Bambino mio adorato”). Molti altri titoli strani, che potevano dare nell’occhio, sono italianizzati, come Jeepers Creepers che diventa un più rassicurante "Ah, Giulietta". Altri titoli sono velocemente e malamente tradotti in italiano, forse con un pessimo vocabolario sotto gli occhi, da qualche burocrate SIAE, come St. Louis Blues ("Le tristezze di San Luigi"). L’orchestra “Maestri del Ritmo” (Pittana alla tromba, Mojoli e Cottiglieri ai saxes e Ceragioli al piano) traduce sui bollettini dei diritti d’autore Moonglow in "Mia pallida luna" e Honeysuckle Rose addirittura in "Pepe sulle rose".
Etichetta jazz mal tradotta dal fascismo Altro non ci fu contro il jazz. Del resto, anche nella musica leggera, il capo della censura, Criscuolo, vedeva pericoli e allusioni ovunque. Come in “Crapa pelada”  (1936), di Kramer, che il popolino credeva alludesse al lucido cranio del Duce, o in "Maramao, perché sei morto?" (1939), che Panzeri dovette provare di aver composto prima della morte di Costanzo Ciano; mentre si tratta di un'antica filastrocca popolare che già nel 1831 era costata l’arresto da parte della polizia pontificia dell’incauto nottambulo che l’aveva canticchiata dopo i funerali del Papa, come si legge in un sonetto romanesco (G.G. Belli, Er canto provìbbito, 11 febbraio 1833). La gustosa vicenda, che smentisce alcuni luoghi comuni e coinvolge curiosamente gatti, censura pontificia e censura fascista, è raccontata in questo articolo.
Aneddoti e luoghi comuni, però, che non ci aiutano a capire. Non bisogna confondere l'anti-americanismo di guerra e la censura, che ci furono ma molto tardi, con la precedente condanna “culturale” del jazz come stile musicale, che in pratica non aveva portato mai a nessun divieto. Perché la dittatura, almeno in queste cose, conservò un briciolo di buonsenso, nonostante i proclami, oppure perché era la solita Italia dei due pesi e due misure, «Qui lo faccio e qui lo nego», «In pubblico è una cosa, ma in casa mia un’altra». Anche nei confronti del jazz, il fascismo come fenomeno di psicologia sociale fu profondamente italiano e individualistico.
Ma la musica, per fortuna, è sempre la stessa, Duce o non Duce. Perfino in tempo di guerra, con un po’ di camuffamenti e addolcimenti, gli italiani – fascisti compresi – continuano a ballare, ascoltare e suonare sia il vero jazz, sia la tanta musica leggera para-jazzistica che andava di moda. E come grida manzoniane, le rampogne di giornali che nessuno leggeva e i decreti d’emergenza nulla possono contro un intero popolo, già ultra-melodico, che dopo secoli di astinenza dal ritmo imposta dalla lirica all’italiana, riscopre con eccitazione il piacere atavico del ritmo, che con buona pace del Popolo d’Italia, è alla base della musica. Lo aveva riconosciuto già nel ‘22 il compositore classico Casella, dopo un viaggio negli Stati Uniti.
In pubblico, nei programmi di guerra dell'Eiar, la radio di regime, nei comizi ufficiali, davanti ai grossi microfoni a carbone Geloso, si predicava "italianità", anche nella musica. Era il mito contadino "nazional-popolare". Tollerato il Belcanto borghese, erano favorite le corali vagamente guerresche, i canti rurali, i balli tradizionali, o le canzoni in cui, in mancanza d’una musica fascista, ci fossero almeno le parole e le circostanze ("Giovinezza", "Faccetta nera") a ricordare il regime.
Ma in privato, era tutta un’altra musica. Anche i federali fascisti «tenevano famiglia». Nel buio dei tabarin affittati, nelle arene dei ritrovi danzanti esclusivi, o sulle terrazze a mare d’estate, e soprattutto nei veglioni o semplicemente nel segreto del salotto di casa davanti alla radio Allocchio Bacchini o Balilla o, per gli alto-borghesi, all’imponente radio-grammofono Marelli di legno lucido impiallacciato a noce (con la valvola verdina dell’ "occhio magico" per la sintonia), si continuava ad ascoltare e ballare la cantante creola, la musica quasi negra, il travolgente ritmo simil-americano, insomma il “jazz”. E mentre laggiù si cominciava a sparare, alla radio come se niente fosse impazzava il buon surrogato italico, il brillantissimo swing vocale del formidabile Trio Lescano (le sorelle olandesi Sandra, Giuditta e Caterinetta Leschan), lo “scat” addolcito di Natalino Otto, un compromesso tra il melodismo nostrano e lo swing, diciamo un Cab Calloway alle vongole ("Ba-ba-baciami piccina, sulla bo-bo-bocca piccolina…"), la più tradizionale orchestra ritmica di Pippo Barzizza.
E, a parte i famosi, c’erano centinaia di complessini fantastici di entusiasmante musica ritmica para-jazzistica. Popolare, popolarissima. Le contrastanti linee melodiche della sezione dei fiati, sorrette dalla ritmica, dialogavano tra loro in modo virtuosistico, con incastri precisi che lasciavano a bocca aperta chi era abituato alla monodia della canzone all'italiana che imitava ancora Caruso o Beniamino Gigli. E invece, in quei brevi ghirigori, in quei ruvidi assoli di sassofono presi a prestito dal jazz, in quegli intrecci strumentali che come per miracolo si ricomponevano proprio alla fine, giovani e vecchi riscoprivano il fascino della polifonia popolare, della amatissima banda di paese. Insomma, vocalizzo italiano (voce, tromba o violino), un po’ di collettivo strumentale, molti riff ripetuti, e tanto ritmo americano: il massimo per la buona musica leggera d’allora.
Ma era il jazz autentico che piaceva alla classe dirigente dell’Italia fascista e agli appassionati. Se no, in seguito, non avremmo trovato così tanti dischi a 78 giri nei mercatini di anticaglie. E i jazzisti lavoravano sempre. Ma con qualche piccola "precauzione" dopo le leggi razziali. "Mi cerchi un bravo pianista, ma non mi proponga ebrei", raccomandò nel ’39 un direttore d’orchestra al jazzista Bios Vercelloni per un ingaggio a Berlino. Molti furono i jazzisti italiani che suonarono in Germania, attratti dalle paghe alte, tra cui Tullio Mobiglia – gli fu affidato anche il ruolo di "Spezial Jazzmusiker" per un film di propaganda – Astore Pittana, Alfredo Marzaroli, Baldo Maestri, Mario Balbo e Alfio Grasso. Quest’ultimo influenzò musicisti di jazz tedeschi, tra cui Helmuth Zacharias e poi quella che allora era considerata una cantante jazz, Caterina Valente. Va da sé che i titoli dei brani americani suonati da Mobiglia al Patria Bar di Berlino ora erano tedeschi: "Sei frohlich mein junge" invece di Take it Easy, Boy.
E perciò non meraviglia che in piena guerra, nel ‘42-43, anche i jazzisti sono arruolati in quella che è la prima "guerra psicologica" della storia. Come contro-informazione, alcune radio naziste in Germania e nel Nord Italia fingono di essere radio inglesi clandestine. Dunque, jazz a più non posso, e tra un brano e l’altro di jazz parecchie notizie false e depistanti.
E così «ci fu il paradosso di generali della Wermacht che fondarono nuove orchestre jazz, anche italiane», ricorda Luca Cerchiari, docente di Civiltà musicale afro-americana all’Università di Padova, che ha scritto un saggio sui rapporti tra jazz e fascismo. E’ uno scherzo del destino: ora anche alla Repubblica di Salò i jazzisti tornano utili. A tutto jazz, quindi, le stazioni radio fascistissime del Nord Italia ("Radio Balilla"), sotto la direzione tedesca. «Facevamo finta di essere una radio americana», racconta Giampiero Boneschi, che vi lavorava. E con altro jazz, di segno contrario, replicavano al Sud da radio Bari, Napoli e Roma. Democrazia contro nazismo, jazz contro jazz.
Una guerra anche di note, un po’ alla Ridolini. Il militare Trovajoli, pianista, anziché essere fucilato per diserzione, è sbattuto per punizione ad Atene. Tutta colpa d’un organizzatore di concerti jazz, ex aviatore dei "sorci verdi" e amico di Vittorio Mussolini e Ciano, che lo aveva ingaggiato a Berlino dimenticando di avvertire le autorità militari in Italia. Ma a Radio Atene il generale Geloso incarica Trovajoli di metter sù per lo svago delle truppe italiane un’orchestrina jazz. Grande successo tra la gioventù bene della città greca, che dimentica il sirtaki e affolla gli studi.
Insomma, anche i poco bellicosi jazzisti, a modo loro, con batterie, tromboni e sassofoni, fecero la guerra. All’italiana, però: cioè da una parte e dall’altra. E quando finalmente Renato Germonio dell’Hot Club di Torino incide nel ‘45 Body and Soul e Sweet Georgia Brown, be’, è segno che sono arrivati gli americani, quelli veri, e la guerra – anche la "guerra del jazz" – è finita davvero. Fra poco arriverà la Repubblica.
NICO VALERIO*
DIRITTI RISERVATI*

IMMAGINI. 1. L’orchestra (“jazz band”) di Tullio Mobiglia negli anni 30. 2. Il giovanissimo Romano Mussolini al pianoforte di villa Torlonia, con accanto la sorella. Come si vede, sta leggendo lo spartito: perciò è una leggenda, alimentata da lui stesso con un certo snobismo (come aveva fatto già Louis Armstrong per assecondare l’ingenuità dei suoi fans), che non conoscesse la scrittura musicale, che del resto perfino il padre Benito, dilettante di violino, conosceva. Anzi, mi raccontò una sera Romano che, agli inizi, sorpreso dal padre a strimpellare al piano jazz, si sentì quasi sollevato quando il Duce lo rimproverò, sì, ma solo perché non sapeva ancora leggere bene la musica! 3. Il libro “Jazz band” dell’intellettuale fascista Anton Giulio Bragaglia, che di jazz non capiva assolutamente nulla. 4. “Introduzione alla vera musica di jazz” (ed. Corbaccio), libro pubblicato nel 1938 da Ezio Levi e Giancarlo Testoni (che dopo la Liberazione con Arrigo Polillo fonderà “Musica Jazz”). 5. La copertina di uno dei tanti pregevoli cd sul jazz italiano degli anni 30 e 40 (con la consulenza preziosa di Adriano Mazzoletti) della casa Riviera Jazz Records. Questo presenta brani rarissimi degli anni 40, con Giampiero Boneschi, Mojoli, Volontè e altri. 6. Il sax tenore Tullio Mobiglia, che suonò anche in Germania (cd della Riviera Jazz Records). 7. Il grande Kramer (nome) Gorni (cognome), poi noto fisarmonicista di successo come Gorni Kramer, in un pregevole cd antologico sul jazz italiano degli anni 30 (cd della Riviera Jazz Records). I jazzisti italiani avevano anche molto humour: un complessino si chiamava I tre negri. 8. Un disco jazz a 78 giri col titolo del brano di Lionel Hampton mal tradotto.

DISCHI. Per saperne di più, sono indispensabili gli interessantissimi dischi cd della collana “Jazz in Italy” della Riviera Jazz Records, benemerita piccola casa discografica italiana che sta diffondendo il grande patrimonio culturale della musica ritmico-leggera italiana degli anni ‘20, ‘30 e ‘40, rivelando incisioni davvero uniche, musicisti sconosciuti e incredibili. Dischi che i collezionisti di tutto il mondo si contendono. Tre copertine di questi preziosi cd sono riprodotte come immagini nel presente articolo. Insomma, un’opera davvero meritoria, di cui tutti gli appassionati, sia di jazz, sia di cultura italiana, dovrebbero ringraziare il produttore e direttore artistico, lo storico e collezionista Adriano Mazzoletti. I dischi si possono acquistare nei più importanti negozi specializzati, o meglio ancora attraverso il sito internet. Alla Riviera Jazz Record e alla sua animatrice Anna Maria Pivato va il nostro plauso sentito. Complimenti. Per questa iniziativa, puramente culturale, il nostro sito fa eccezione alla regola severissima di non fare pubblicità. Che in questo caso, vi assicuro, è doverosa.

* NOTA. Diritti riservati (v. condizioni di Creative Commons sul colonnino). Articolo pubblicato, con qualche riduzione effettuata dallo stesso autore, dal settimanale di cultura Il Domenicale. Veramente meritava di più, e infatti era stato proposto anche al Corriere della Sera, facendolo leggere in anteprima al grande giornalista Giovannino Russo (“Bellissimo, complimenti, un vero scoop culturale; ma togliti dalla testa che articoli così lunghi si possano pubblicare oggi dai quotidiani, anche in terza pagina. Non è più come ai miei tempi…”). Eppure, lunghe “articolesse”, sempre uguali, o gruppi di articoli (e non è la stessa cosa?) sono pubblicati su calcio, politica, l’ultimo libro dello scrittore alla moda, opera lirica, pettegolezzi tv, festival della canzonetta a Sanremo ecc. Così lo inviai alla Repubblica dove, nonostante che sia stato loro collaboratore anni addietro, mi destinarono prima 60, poi 40, poi 20 righe sul supplemento illustrato del giovedì o del sabato. Loro che ne sprecano centinaia su rock, vacanze in ville snob nel Chianti, mostra del cinema di Venezia, Sanremo, l’ultimo romanzo che non vale niente o l’ultima borsetta alla moda. Rifiutai. Si offrì di pubblicarlo anche Il Tempo, ma con ampi tagli. Quelli del Giornale e del Foglio, se ricordo bene, invece, neanche risposero. Come è peggiorato il giornalismo in Italia da quando l’ho lasciato! E poi si lamentano se nessuno legge più i giornali! Perché non provano a cambiare giornalisti e direttori? Non se ne accorgono, ma pubblicano sempre gli stessi articoli. Via via sempre più brevi! E scritti sempre peggio…

AGGIORNATO IL 22 MARZO 2015

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23 febbraio 2006

CERVELLI DI GALLINA. Contro l'aviaria, meglio le stragi o il vaccino?

Anche un pollo lo capirebbe. Ma un politico, no, si sa. E neanche i burocrati sanitari, che in quanto a volume della massa cerebrale non competono con quelle delle galline, no, ma con quello degli gnomi di Bruxelles della Comunità Europea. Del resto, tra cervelli da gallina ci si intende. Contro la avian flu, l'influenza avriaria, è molto meglio vaccinare gli animali invece di sterminarli. Non solo dal punto di vista dell'umanità e dell'educazione, perché lo spettacolo di tanti animali gettati ancora vivi nei cassonetti - come ha mostrato più volte la tv - o uccisi in tanti altri modi, è diseducativo per i bambini e procura ribrezzo. Ma anche dal punto di vista dell'economia e dell'inquinamento, visto che esiste anche il problema dello smaltimento delle carcasse. Senza contare che maneggiare il piumaggio dei volatili infetti è altamente rischioso per la salute degli operatori (e le protezioni sono costose). Hanno ragione alcuni commentatori, come Magnus Linklater sul Times: perfino un cervello di gallina capirebbe che la soluzione più intelligente consiste nel vaccinare gli animali invece di sterminarli. Ma noi aggiungiamo anche una bassa insinuazione d'uso tutto italiano e francese: il vaccino sarebbe a carico dei singoli allevatori italiani o francesi, mentre i finanziamenti successivi alla distruzione degli animali infetti saranno senza dubbio a carico dell'Unione Europea. Il che vuol dire: spalmare le spese su tutti. Ma non era meglio prevenire? Macché, sono proprio i disastri il vero affare.

21 febbraio 2006

AUTO FAVOLOSE. Quattroruote tutta plastica? No, meglio un’auto antica.

Mg foto frontale (parabr.poco vis.)(sett.2005)(piccola s.targa)
Confesso: non ho mai amato troppo l'automobile. Intendo dire come abituale, velocissimo, moderno, nevrotico mezzo di trasporto. Del resto, a che pro correre, per risparmiare cinque minuti a rischio della vita, se poi nelle code del traffico si perdono mezze ore, e soprattutto, una volta a casa o in ufficio, si vive “lentamente”, troppo lentamente, sprecando ore inutili davanti alla tv, al computer, o in anticamere e sale d’aspetto, e comunque ingrassando – statici e immobili – a tavola o in poltrona? Conosco gente che si precipita in un posto per… non far nulla. Bisogna essere marziani per avere il diritto di prenderli in giro? O si è veloci o si è lenti, dico io; ma sempre e in tutto. Peggio ancora, poi, se l’auto diventa status symbol, prolungamento ridicolo della propria (carente) personalità.
      Però mi piace la bellezza e la testimonianza storica di prodotti inimitabili che hanno fatto la Storia dell’intelligenza umana (“archeologia industriale” o "arte industriale"?), talvolta veri e propri capolavori. A cui aggiungo la soddisfazione di far funzionare ancor oggi, a costi ormai ammortizzati da tempo, una macchina antica (“risparmio d’energia”), come qualsiasi oggetto, apparecchio o strumento d’epoca, dal rasoio di sicurezza apribile in acciaio inossidabile con lamette intercambiabili (degli anni ‘40), all’amplificatore a 10 valvole Fischer (anni ‘60), alla borghese penna stilografica Omas Lucens a stantuffo (anni ‘30), alla operaia penna stilografica Punto Rosso (anni ‘40), alla “matita automatica” da taschino (anni ‘50), all’orologio meccanico (anni ‘40). Tutti strumenti nel loro genere perfetti, ancora concorrenziali e spesso di gran lunga migliori per qualche aspetto degli equivalenti moderni. Basti pensare che un banale ed economico (5000 lire a Porta Portese) orologio meccanico russo Raketa (anni ‘70) perde o guadagna solo 10 secondi al giorno rispetto a un moderno orologio al quarzo. Del resto l’orologio meccanico fin dagli anni ‘50 è la macchina più piccola e stupefacente, ormai perfetta, ancor oggi assolutamente competitiva. Che senso ha la precisione digitale al centesimo di secondo, se poi arriviamo all’appuntamento con un quarto d’ora di ritardo?
Mg foto cruscotto e parabr.centrale (sett.2005) corretto (picc.)      E’, in altre parole, una sfida al Tempo, quella dell’oggetto antico che funziona. Perché il progresso, perfino quello tecnologico, è vero solo fino a prova contraria, cioè con parecchie eccezioni. Che “progresso” è il computer di bordo se una scheda elettronica va in corto circuito? L’antica auto tutta meccanica, invece, parte al primo giro di chiavetta, sempre, anche al gelo. E, anzi, a proposito delle produzioni moderne, si parla ormai di decadenza del lavoro ben fatto e della qualità intrinseca dei materiali, oltre alla truffa della rapida obsolescenza e della non riparabilità. La “obsolescenza programmata”, cioè la voluta deperibilità a tempo prevista dai progettisti per i più vari prodotti, dalla lampadina alla lavatrice, dalla stampante dei computer all’automobile moderna, per poter vendere di più (v. video nel colonnino), non riguardava le automobili antiche, tra cui la MG, tutte costruite quando il mercato era ben lungi dall’essere saturo, e quindi fatte per durare a lungo, e per poter facilmente essere riparate.
      In cambio, le deperibili auto di oggi sono proposte agli ingenui come “a basso consumo”, come le lampadine o le lavatrici. Certo, ma se si calcola il prezzo d’acquisto di 2, 4 o 6 veicoli (o lampadine, stampanti,  tastiere, lavatrici ecc.) al posto di 1, le auto moderne sono costosissime, mentre le auto d’epoca in quanto eterne e riparabili (e dal costo già ammortizzato) sono alla lunga più economiche, paradossalmente.
MG foto totale laterale sin. dall'alto (sett.2005)(piccola)
      Senza contare che le auto d'epoca oggi sono infinitamente più individuali, spesso esteticamente raffinate, comunque istruttive. Ma sì, perché nate come “inutili” mezzi da diporto e ostentazione (la retorica ipocrita dell’auto “sportiva”, in realtà da “rimorchio”, o di status-rappresentanza), le auto d’epoca sono diventate oggi più “utili”, in quanto sono Cultura, delle automobili moderne che non valgono nulla né come materiali né come Cultura. Auto oggi sbandierate come “strumenti di lavoro”, che invece sono causa di perdita di tempo, sia di lavoro che di svago, e che sopravvivono solo grazie alle mancate politiche dei trasporti sociali da parte degli Stati, che si occupano di tutto tranne che degli spostamenti e della razionalizzazione dei luoghi di lavoro. Auto moderne che con i loro materiali vili, plastiche da quattro soldi, finto-cromo, finto-legno e finta-pelle, circuiti stampati non riparabili, computer instabili, rozzi incastri al posto delle viti, prive di personalità, tutte banalmente omologate e piattamente uniformi nella linea stilistica (con la scusa di una “aerodinamicità” che in pratica è vietato sperimentare, a causa dei giusti limiti di velocità), sono state costruite con l’inganno, cioè per durare solo poco tempo (magari con una scheda elettronica o il computer di bordo che dura un certo numero di ore), prodotte e vendute solo per consumismo, capaci di generare omologazione e schiavitù psico-fisica (spesso vi si resta letteralmente prigionieri) sia tra i produttori che tra gli utenti. E con tutto ciò vengono fatte pagare a caro prezzo. Il loro valore, poi, cala vertiginosamente ogni anno, mentre quello delle auto antiche è stabile, quando non in aumento.
MG foto tre-quarti anteriore destro (sett.2005)(piccola)
      S’intende che come naturista – che è molto più di ambientalista – preferisco ben altri mezzi di trasporto collettivo o individuale, come treno, nave, bicicletta, barca, carrozza a cavallo (senza far male al cavallo, però), e soprattutto le mie gambe, perché mi è sempre piaciuto molto camminare. Se potessi, privo come sono di snobismo, con grande naturalezza mi muoverei solo a cavallo, in carrozza e in barca, oltre che a piedi. Uso il più possibile la nave e il treno.
      L'aereo mi è capitato di usarlo di rado. Ma non certo per paura. A diciotto anni, prima ancora di prendere la patente per auto, ho addirittura pilotato il "macchino", cioè il piccolo aereo Macchi MB-308 biposto (vedi foto, ma il mio era bianco), e anche un aliante di cui non ricordo il modello. In tutto un'ora e mezza di volo, a più riprese, dall'aeroporto di Gorizia, dove seguivo un corso dell'Aeronautica Militare. C'era l'istruttore, ma - sia chiaro - alla cloche c'ero io. Anzi, ricordo benissimo che l'istruttore se la faceva sotto, e durante una mia picchiata troppo decisa puntando su un albero, urlò: “Io ho moglie e figli!”, e rialzò con una acrobatica cabrata l'apparecchio. Atterrato mi fece una ramanzina. Devo dire che ho spesso pensato a quella picchiata cinematografica da Frecce volanti. Ma, dico io, se hai paura non fare l'istruttore di volo... Comunque non presi il brevetto solo perché costava troppo mantenerlo.
      Ma oltre all’amore per la cultura, l'arte e la storia, ho sempre avuto la tendenza alla manualità. E perciò da adolescente avevo anche l'hobby del modellismo (treni, mezzi militari e auto del passato). E, visto che va spesso smontata e rimontata, un'auto antica è non solo cultura, cioè testimonianza d'un sapere e d'una tecnologia conservati con abilità e intelligenza fino a noi, ma anche un… “modello in scala 1:1” da far funzionare, che bisogna aggiustare, restaurare, verniciare con le nostre mani. Così, la mia coscienza di super-naturista era pulita: un'auto antica, dopotutto, è anche risparmio di materie prime e lavoro, quindi conservazione di energia e tecnologia. E, grazie al "riuso", principio base degli Antichi (e oggi di noi naturisti e ambientalisti) potrebbe essere anche un piccolo freno al consumismo insensato. Così, odiando le moderne auto, “servili” in quanto servono a qualcosa di materiale come gli schiavi, decisi che avrei acquistato e posseduto solo un'auto antica, nata non per servire ma per condurre, sia pure un gioco, come se fosse  un’auto normale, moderna, da usare simbolicamente e a scopo educativo (per gli altri) un poco ogni giorno. Un giocattolo culturale e anti-consumistico, ma anche un esempio di conservazione dei beni e una possibile alternativa utopistica.
Aereo Macchi MB-308 (fine anni 40)
      Di recente, un trafiletto in cronaca romana del Corriere della Sera (v. in basso) mi ha fatto trasalire riportandomi a tanti anni fa: evoca la fondazione a Roma dell'MG Car Club d'Italia. Ero molto giovane e, sia pure di malavoglia – i club mi annoiano e non avevo tempo – mi ritrovai ad esserne, stranamente, tra i fondatori. Trascinato dalle insistenze dell'amico Paolo Bordini, genio delle auto d'epoca, specialmente inglesi, e grande conoscitore, bullone dopo bullone, delle MG in particolare (di recente ha comperato in Inghilterra anche una rara MG-PB). Avevo acquistato una MG-TC dopo che era fallito il mio tentativo di avere una rara Lancia Augusta spider, per la mia tracotanza di giovane inesperto (chiedere con insistenza al vecchio proprietario di un'auto rara "garanzie" sulla ruggine sotto la carrozzeria e il telaio è da cretini, e giustamente fui mandato a quel paese già alla prima telefonata). Bordini per consolarmi mi consigliò l'alternativa della MG spider modello TC. "E' più o meno simile come forma", disse semplificando ad usum Delphini quando gli spiegai che volevo un'auto degli anni Trenta o in stile anni Trenta.
      In men che non si dica – altri tempi – trovai in vendita sugli annunci del Messaggero la MG-TC di Renato Greco, allora famosissimo ballerino e coreografo della Rai-Tv (Canzonissima), che usai per anni così com’era, compresi improbabili paraurti di acciaio, inesistenti sull’auto originale, oltretutto inefficaci perché montati su staffe debolissime che tutt’al più potevano prevenire i graffi da parcheggio, non altro. Ancora oggi l’ormai ottuagenario amico jazzista Carletto Loffredo, che ha avuto una MG-TC e conosce bene le auto antiche, mi prende in giro per quei ridicoli paraurti. Parcheggiata all’aperto sotto casa ed esposta alle intemperie (ma partiva già allora al primo giro di chiavetta, e la usavo tutti i giorni) la povera spider si rovinava giorno dopo giorno a partire dalla carrozzeria (cofano). Confesso che ero diventato un po’ la favola del quartiere: «Ah, è tua quella bellissima macchina abbandonata e arrugginita? Ma perché non la restauri?». Un bel mattino trovai un biglietto che cambiò insieme la vita dell’auto e il mio conto in banca: «Si vergogni – scriveva un passante esteta e moralista – lei non è degno di possedere questo gioiello!».
      Colpito nel mio amor proprio, consapevole che chi possiede qualcosa che è patrimonio tecnologico o artistico comune deve impegnarsi nella sua manutenzione e anche renderne conto alla società, ma convinto anche che un’auto antica esteticamente in ordine sarebbe stata meglio accettata dai pigri meccanici romani (che come le donne giudicano in base all’esteriorità), mi accinsi finalmente al restauro cominciando da “ciò che si vede”  (carrozzeria, cromature, cruscotto, tappezzeria e capote), e poi finalmente bene accolto dai riparatori grazie all’abito buono, rifacendo anche freni, carburatori, radiatore e impianto elettrico.
Il cruscotto lo realizzai totalmente io stesso, forte delle mie esperienze di modellista e di dilettante costruttore di radio, dalla parte elettrica alla revisione degli strumenti (tranne l’amperometro che mancava della lancetta, restaurato in UK), dalla scelta della radica grezza di acero presso il grossista di legnami Borzelli fino al rafforzamento del volante che ormai si sbriciolava (con resine epossidiche trasparenti a due componenti). Ma il vecchio ebanista in pensione incaricato dell’impiallacciatura della radica (incollaggio con tradizionale colla cervione) mi consegnò un cruscotto troppo lucido e d’un colore troppo chiaro. Lasciai, sia pur accorciandola, la comoda manopola di sicurezza per il passeggero (“a tubo cromato da bagno”) che avevo trovato, rifiutandomi di mettere quella originale ma scomodissima “a lama di coltello”. Altra mia libertà nel restauro fu la sostituzione delle due orribili luci da cruscotto in alluminio con quelle a conchiglia e cromate della MG-A. Inoltre, la plancia centrale di metallo con l’avviamento e i comandi principali, che avevo trovato interamente cromata, la feci ricromare tutta anziché farla verniciare di nero opaco al centro come pretendeva l’originale. E infine lasciai i due magnifici fanali non originali perché carenati, cioè allungati in modo aerodinamico, che avevo trovato sull’auto: cosa ideale sul piano estetico per un’auto stretta e lunga, ma non su quello storico-filologico (sono anni ‘40). Non ci pensai minimamente, con quello che costano, a sostituirli coi corti fanali originali (anni ‘30). Fatto sta che l’amico Bordini parlò di "over-restoring", cioè restauro eccessivo.
      Ma è chiaro che con queste piccole modifiche estetiche realizzate nel corso dei decenni da tutti e tre i successivi proprietari italiani, me compreso, la spider è più bella. L’auto è visibile qui sopra (frontale, cruscotto e tre-quarti destro), e non ci vuole un esteta per rendersi conto che, neutralizzati tutti i trucchi degli inglesi per imbruttirla, è molto più soddisfacente. Anzi, mi scuso per la volgarità dei grossi fanali anti-nebbia, per di più gialli, che non c’entrano niente; ma li ho ereditati dal precedente proprietario. Dovrebbe essercene solo uno e più piccolo, cromato e con vetro bianco, in coppia con la tromba del clacson. Ma io per umanistico amore della simmetria vorrei mettere due faretti uguali, piccoli e di vetro bianco, che però non riesco a reperire a prezzi ragionevoli. Questa auto è anche oggetto di un altro articolo. Ma torniamo alla storia del Mg Car Club in Italia.
      Paolo Bordini, galvanizzato dalla lettura della rivista dell’Mg Car Club of England Safety Fast, decise da solo, un bel giorno del 1972, di costituire il club delle MG anche in Italia. Ci consultammo. Voleva chiamarlo MG Car Club Italiano, ma io buon titolista suggerii il più autorevole “MG Car Club d’Italia”. Lui fu presidente, io segretario, più alcuni amici dotati di modelli diversi.  La TC di Paolo, che aveva l’albero a camme nuovo e per di più sportivo, “stage 2” (lui si scusò: «E’ l’unico che ho trovato in Inghilterra…»), si rivelava più scattante e veloce della mia quando facevamo a gara tra gli stretti vicoli di Roma (ne ricordo una in via della Lungara, a costo di essere immediatamente trasferiti nell’adiacente carcere Regina Coeli…). Ma io, refrattario ai club, mi stancai dopo alcuni mesi. L'associazionismo, in generale, per me è sempre stato noioso, perché in Italia le cariche, la lotta per il potere, oppure le abbuffate delle cene sociali, finiscono sempre per prevalere sullo scopo societario.
      L’MG Car Club d’Italia ebbe questa genesi. Il 17 settembre 1972 Bordini inviò una lettera alla casa madre inglese, l’MG Car Club of England Ltd di Abingdon, chiedendo permesso e credenziali (tra cui la riproducibilità del logo dell’Ottagono, marchio storico della MG) per aprire un club affiliato in Italia. Gli inglesi risposero il 13 ottobre scusandosi per il ritardo e dando il placet. L’Assemblea di fondazione si tenne a Roma, nella casa dei genitori del socio Ferrucci sulla via Olimpica, il pomeriggio del 10 marzo 1973. Ne risultarono soci fondatori effettivi, fisicamente presenti, Paolo Bordini, presidente, Fabrizio Castellani vice-presidente, Nico Valerio segretario, Andrea Ferrucci tesoriere, Aldo Bontemps consigliere, Walter Nazzi consigliere. Bordini aveva ricevuto la delega per rappresentare altri soci, come Adriano Amidei, non presenti e che nella maggior parte dei casi non si fecero più vedere. La casa madre inglese ratificò con lettera del 15 marzo 1973 l’avvenuta fondazione e costituzione dell’MG Car Club d’Italia.
      Eravamo tutti giovani o giovanissimi. La cena inaugurale si tenne settimane dopo, non a piazza Navona come dice il sito ufficiale MG Car Club d’Italia, ma a piazza della Quercia (dietro piazza Farnese), nella trattoria proprio accanto alla quercia, di lato rispetto alla bellissima facciata del palazzo del Consiglio di Stato. E, al solito in Italia, se eravamo pochi alla fondazione, alla cena eravamo tanti! Temperatura mite, serata bellissima e tersa: si cenò in una lunga tavolata all’aperto, con le auto MG accanto. Un lusso triplo per dei giovani (cenare in Centro, non in pizzeria ma in una vera trattoria tipica, a prezzi abbordabili, e tenere l’auto al guinzaglio) oggi irripetibile.
      Cominciammo anche a fare propaganda, con la carta intestata da me realizzata e fatta stampare in una tipografia di Ponte Milvio (ho ancora il cliché tipografico originale inciso nello zinco e montato su legno). Quando si trovava in giro una MG parcheggiata si infilava sotto il tergicristallo il nostro biglietto. Fu così che nei mesi successivi trovammo altre MG e quindi altri soci, tra cui la TD avorio di Fabio Filippello, funzionario della FAO, che sostituì alla segreteria alcuni mesi dopo la fondazione lo svogliato Nico Valerio. Il nuovo segretario farà carriera diventando decenni dopo, conclusa la lunga e attivissima presidenza di Gianfranco Lami (1983-1992) e quella breve di Fulvio Beltrami, un attivo e appassionato presidente del Club.
      Però che bei tempi, quelli. Ricordo che lasciavo ovunque per intere giornate l'auto scoperta, con gli sportellini privi di serratura che anche un bambino avrebbe scavalcato, e senza alcun antifurto, e la trovavo ancora lì. Anzi, talvolta con qualcosa in più. Una volta sull’auto parcheggiata in strada sotto casa trovai un bigliettino d'una donna misteriosa ("Hallo, I like it, please telephone..."), che scoprii poi essere un’altissima mannequin in trasferta per una sfilata al vicino hotel Hilton. Un’altra volta scendendo da un ufficio del palazzo delle Generali e della Confindustria in piazza Venezia trovai nella spider, quel giorno coperta, una giovane donna tedesca dalla grande chioma bionda. Avevamo parlato a una festa e l’unico modo per ritrovarmi, disse, era quello di aspettarmi nella spider. Altro che snob, era una strana “spider democratica”, sempre aperta, dove tutti potevano entrare, dal bambino che gioca al pilota alla sorella maggiore del bambino… A proposito, avevo l’ardire di lasciare, unico mortale (neanche Agnelli lo faceva), l’auto parcheggiata sul passo carrabile della Confindustria. Senza raccomandazioni e senza bugie, ma solo grazie all’equivoco sul mio cognome. Seppi anni dopo, infatti, che il severissimo portiere non aveva mai osato farmi sloggiare, perché la mia faccia tosta gli appariva una prova evidente che dovevo essere un parente del potente industriale ing.Valerio, temutissimo in quell’ufficio. Che tempi!
      Anche quando mi assentavo per un mese di vacanza estiva lasciavo la MG parcheggiata sotto casa con la capote chiusa, e basta. E a Roma c'era sempre posto per parcheggiare, gratis, ovunque, anche in pieno centro. La metropolitana, che porta tutti in Centro, era di là da venire. Perciò non c'erano le folle di oggi, e circolavano meno auto. Le strade del Centro storico di Roma, al confronto di oggi, erano vuote. Finché l'assessore Nicolini impose la fermata della metropolitana a Piazza di Spagna, fatta apposta – dicevo io – per  permettere di fare il meridionale "struscio" voyeristico in Centro a chi abitava all'Appio-Tuscolano. Come a dire, non certo la Cultura (che non importa a nessuno) né le decisioni economiche e politiche, ma lo shopping, la curiosità morbosa verso i Vip, l’adorazione della Marca famosa e il consumismo, questi sì, devono essere “valori” alla portata di tutti. E’ questa la democrazia? Poi, a ridurre ancora più gli spazi liberi, vennero le isole pedonali (bene) e la stupida mania – da cafoni arricchiti e pigri, quindi molto italiana – dell'automobile come una sorta di “diritto assoluto” del cittadino sancito dalla Costituzione e che ci accompagna “dalla culla alla bara” (male). Anzi, ora nelle strettissime stradine del Centro i tanti cretini ricchi (perché dovrebbero esserlo solo i poveri?) provano il gusto d’un ulteriore esibizionismo, quello dei fuoristrada da via del Corso, dei patrol da deserto di piazza del Popolo, dei Suv da guerra in Irak ai Parioli.
      Fatto sta che con naturalezza, senza il minimo esibizionismo, e con poca o nulla curiosità tra i romani e i pochi turisti italiani (era l’epoca felice precedente a papa Wojtyla e alle Notti Bianche), mi fermavo parcheggiando regolarmente lungo il marciapiedi semi-sgombro di Piazza di Spagna – e trovavo sempre posto – per comperare l’introvabile Le Monde del venerdi col supplemento Le Monde des Livres che mi serviva per lavoro, alla bottega del giornalaio che esisteva allora sul lato della piazza in comune con via del Babuino. 
      Gustavo quelle libertà con l’intensità dei piaceri effimeri, come se fossero “gli ultimi giorni di Pompei”, occasioni che sapevo bene essere destinate prima o poi a finire. Eppure, visto con gli occhi di oggi, anche solo quel poter parcheggiare ovunque e senza timore che ti rubassero l’auto (allora le auto d’epoca erano fuori mercato e non interessavano nessuno, neanche i ladri), può sembrare un privilegio, una piccola ingiustizia sociale. Ma non lo era: c’era spazio dappertutto, anche in Centro, c’era meno consumismo stupido nella gente, meno “effetto copia”, meno furbizia, meno regolamenti e divieti inutili, quindi più libertà. Insomma, non c’era nessun altro, tranne noi pochissimi, che volesse fare le stesse cose, ovvero andarsene in giro in modo rilassato come negli anni Venti o Trenta a bordo di auto antiche vivendo la normale vita di tutti i giorni. Altro che oggi, in pieno consumismo da finte auto antiche – in realtà solo “vecchie” – quando perfino Fiat 500, maggiolino Volkswagen e macchine piene di plastica fatte in grande serie sono considerate “auto d’epoca”. Anni che ricordo, anche per tanti altri motivi meno futili, come una lunga Belle Epoque, una piccola "età dell'oro": gli avventurosi e ormai mitici anni Settanta.

Ritaglio: AUTO STORICHE E RADUNI
La «dependance romana» del mitico Morris Garage. Nel 1913 William Morris ex meccanico di biciclette realizzò il suo sogno: diventare costruttore di automobili. Nel suo «garage» a Cowley, cittadina inglese vicino Oxford, costruì i suoi primi due modelli. Con una fantasia tipicamente britannica le due vetture presero il nome di «Cowley» e «Oxford». Nel 1925 le MG debuttarono nel mondo delle corse. Tazio Nuvolari nel 1933 a bordo di una «Magnette K3» vinse il leggendario Tourist Trophy. A Roma, nel periodo della Dolce Vita, furoreggiava la MG A, una grintosa spider con al volante molti giovani appartenenti alla ricca borghesia romana. E proprio nella Capitale dal 1973 è attivo l'MG Car Club d' Italia. Presieduto da Fabio Filippello, il club, che associa oltre 350 appassionati della più celebre «convertibile» inglese, opera su licenza dell' MG Car Club Ltd di Abingdon fondato in Inghilterra nel 1930. L' associazione romana organizza ogni anno alcune manifestazioni riservate alle MG d'epoca. Tra i raduni più importanti, l'MG Winter Meeting, il May Flowers Run ed il Trofeo Settecolli. Nell'ambito del club è stato costituito il Registro italiano MG. Aderire all'elenco storico [ma non al Club] delle automobili di William Morris è gratuito (Francesco Arcieri, Corriere della Sera, Cronaca di Roma, 19 febbraio 2006).


IMMAGINI. 1-2-3-4. La spider MG-TC (frontale, cruscotto, laterale sinistro e tre-quarti destro). 5. Il piccolo aereo Macchi MB-308 biposto, detto il “macchino”.

AGGIORNATO IL 13 FEBBRAIO 2017

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16 febbraio 2006

CLASSIC CARS. Il fascino delle auto antiche tra storia della tecnologia e arte

MG foto totale laterale sin. dall'alto (sett.2005)(piccola) Il fascino delle automobili antiche, parlo di quelle davvero antiche, prende sùbito e totalmente tutti, grandi e piccoli, uomini e donne, giovani e vecchi. Per tanti motivi (v. articolo). E già solo questo l'avvicina ad una curiosa caratteristica dell'arte antica, che è stata ed è tuttora capace di comunicare a tutti. Non voglio ricordare il valore culturale come testimonianza di "archeologia industriale", che pure esiste. Per esempio, l’auto che si vede nelle tre immagini, una Mg-Tc è frutto di un progetto ingegneristico unico, e conserva ancora qualcosa dell'artigianato antico dei carrozzai: è stata montata tutta a mano, come si vede dalle fotografie della linea di lavorazione nella fabbrica di Abington (Inghilterra).

Come linea estetica, la Mg modello T è la tipica spider inglese degli anni Trenta, anche se la sua produzione durò fino al primo dopoguerra. Ma tornando all'oggetto artistico o artigianale o paleo-industriale, che piace subito a tutti, oggi come negli anni Trenta, be', senza fare polemiche, lo stesso non si può dire dell'arte o dell'artigianato di oggi. Che piace - se piace - solo a sparute frange o classi di età, perché ormai la propensione all'arte, la formazione del gusto, è diventata una fenomeno antropologico-culturale di minoranza, che procede ad ondate di moda (un film, la Tv, un libro di successo, i giornali illustrati, internet). 

MG foto tre-quarti anteriore destro (sett.2005)(piccola)Nulla più di individuale, di personale. Vi ricordate, quando eravamo giovanissimi, che "schifo" che ci faceva, a noi romani, l'Altare della Patria o Vittoriano? Ci avevano convinto i professori della facoltà di architettura di Roma, tutti contestatori snob antiborghesi. Gli stessi che progettavano e costruivano i serpentoni di cemento armato di Corviale - invivibile - solo per il gusto d'una aristocratica "linea" grafica, d'un disegno originale, ma poi loro abitavano ai Parioli o al Ludovisi.

Poi imparammo a guardare con i nostri occhi, e quell'esagerata rievocazione di un'arte antica favoleggiata che il nostro giovane Stato liberale esponeva come simbolo, in mancanza d'altri nella città dei Papi, come per acquistare autorevolezza, diventava commovente, addirittura nobile, nonostante la semantica architettonica dell'imitazione, vietatissima in un Paese che ha tutto, come l'Italia. Diverso il discorso dell'arte antica: dal garzone del merciaio al prete, dalla lavandaia all'artigiano, tutti vedevano subito con i propri occhi che "era bella". Eh, questa era la superiorità del Duomo d'Orvieto o della Gioconda o delle grandi statue greche, o dei mosaici pompeiani, insomma dell'Arte antica in genere: piaceva, e piaceva a tutti, colti e ignoranti. Perché parlava, comunicava. Cosa che l'arte moderna non fa più con la medesima ampiezza e profondità.

Mg foto cruscotto e parabr.centrale (sett.2005) corretto (picc.)La mia automobile d'epoca, una spider MG, mod.TC, funzionante (anzi, si accende al primo giro di chiavetta, il che non si può dire di tutte le auto moderne), che ho restaurato in parte personalmente, specialmente il cruscotto (vedi), ha questo di consolante in comune con l'arte antica, che piace a tutti.
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Un raro filmato amatoriale in bianco-nero del 1948 mostra sui tornanti delle "corniches" sopra Montecarlo una MG-TC come la mia che accompagna, anzi, provoca, la nuova Porsche condotta dall'ing. Porsche in persona in un test prima della produzione. Avete visto che grinta? Diciamo che la MG ci fa la figura migliore....

AGGIORNATO AL 10 MARZO 2013

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09 febbraio 2006

MANGIA-MANGIA IN TV. Rai, cibo degli esperti e vegetariani "eremiti"

Il cibo è telegenico, peccato che quegli incapaci di registi e programmisti della Rai-Tv non lo sappiano. Presentano tanti programmi di cucina improbabile e pasticciata (talvolta ributtante), fatti solo per la telecamera, cioè per un pubblico di casalinghe anziane che ormai ha perso l’entusiasmo e si appaga di "mangiare con gli occhi" il cibo, ma non ama più stare in cucina.
Altrimenti, ci sono le trasmissioni scientifiche da Quark di Piero Angela (buon pianista jazz in gioventù, ma lì finì la sua creatività. Però andrebbe bene come moderatore politico...), che però non trasmettono entusiasmo, col regista che indugia sul conduttore anziché farci vedere le cose che ci interessano. Solita autoreferenzialità italiana. E la scienza – tipico vizio di Quark – è sempre vista come "stranezza", "curiosità", "mostruosità", una cosa lontana, bella ma inutile. E poi basta con questo equivoco di Angela "serio" e bravissimo conduttore, solo perché flemmatico per natura e lento nel parlare: lo ha spiegato lui stesso che ha imparato a fare lo spelling per correggere il suo accento piemontese. Infatti parla come uno straniero: ecco forse perché piace al popolo di xenofili... Ma in fondo è solo un presentatore impersonale, visto che tutto il lavoro di ricerca e cucina redazionale è fatto da altri. Che non sono molto esperti in certi campi, e così si sentono spesso cose generiche, banali, inesatte, sia nella nutrizione scientifica (insufficiente il docente Cannella), sia nell'alimentazione degli Antichi Romani (abbiamo semtito delle banalità e anche inesattezze gravi).
Dilettantesca e quasi una caricatura fuori tempo massimo del salotto di Maurizio Costanzo è la trasmissione di Telesalute. Anche qui la telecamera indugia sulla conduttrice, mentre gli ospiti, in genere esperti in pensione o di secondo piano, parlano a turno dicendo sempre cose banali, risapute e moderate, in stile Rai "per casalinghe ignoranti". Ma una tv che si chiama Telesalute non dovrebbe andare più in profondità?
C’è poi quel mediocrissimo Elisir (Rai 3) che è come una succursale della Asl: medici con improbabile camice bianco alle ore 22 di domenica sera, intervistati in un ambulatorio vuoto, che elencano in modo grigio e superficiale sindromi, sintomi e terapia come se recitassero una enciclopedia popolare a dispense. Sempre le stesse malattie. Che tristezza. E che menagramo. Il regista - se non è colpa sua - si metterà le mani nei capelli: nessuna creatività, niente spettacolo. Il tutto condotto in stile tronfio e spocchioso da Mirabella, che non si capisce davvero come possa essere stato un attore comico. Se non faceva ridere prima, però, fa ridere ora. Ma, diventato famoso in tv, adesso addirittura "insegna all’Università". Che cosa e in quale università, ci piacerebbe saperlo. Come mons.Tonini, che a forza di stare in tv è stato fatto cardinale per meriti catodici. A quando il cappello rosso a don Mazzi?
Qualche sera fa ne abbiamo sentita una delle solite a Elisir. Parlava il vecchio nutrizionista Del Toma che ha sempre l’aria di non essere molto aggiornato. A proposito di vegetarismo ha cominciato ad elencare banalità e inesattezze gravi per un professore universitario. Molti studi scientifici che provano i vantaggi del regime vegetariano, come si sa, sono stati condotti sulla comunità americana degli Avventisti, che conta molti vegetariani (circa la metà) per motivi religiosi. Tutti questi studi hanno provato che i rischi di molte malattie degenerative, dal diabete ai tumori, sono notevolmente inferiori negli Avventisti, come in altre popolazioni vegetariane.
Ebbene, che è scappato di bocca al Del Toma? Che quegli studi epidemiologici non hanno un gran valore (non sono "significativi") perché non sono rapportabili alla popolazione normale, in quanto gli Avventisti vivrebbero come salutisti eccentrici ed "eremiti". Sconcerto e pena tra i telespettatori esperti. Il buon nutrizionista Del Toma chissà che s’immagina che siano questi strani Avventisti: "stiliti" che fanno penitenza su alte colonne, trogloditi che vivono ancora nelle caverne, o fachiri che dormono nudi su letti irti di chiodi?
Santa ignoranza da provinciali. Gli Avventisti vivono come tutti, anche se magari sono più attenti alla salute del resto della popolazione, per esempio non fumano e non bevono alcol. Ma questo viene considerato dai ricercatori. Per correttezza scientifica negli studi vengono comparati ad altri Avventisti "di controllo" scelti tra quelli che hanno le medesime abitudini, solo non vegetariani. Lo "studio epidemiologico ideale", infatti, è quello in cui i due gruppi di popolazione messi a confronto si diversificano solo per la variabile studiata (in questo caso la dieta). Possibile che un professore universitario non sappia quello che uno studente del primo anno di biologia sa benissimo? O, visto il mangia-mangia dei mass media in Italia, c’è qualcosa dietro? Per esempio, pressioni sulla tv dei produttori di carne o degli inserzionisti pubblicitari?
Non sarebbe la prima volta. Ma speriamo proprio che sia solo Santa Ignoranza.

AUTOBIOGRAFIA. I miei libri, Corsi e articoli: appunti per una voce Wikipedia

Dall'Osservatorio di Monte Mario (media)(testa con cravatta)NICO VALERIO, studioso, scrittore scientifico, conferenziere, docente, critico, polemista, commentatore di cultura, costume e politica, è anche il teorico in Italia del Naturismo nella sua accezione più ampia e storica, e in particolare dell'alimentazione sana e naturale, della prevenzione e terapia con gli alimenti, del vegetarismo sano, dell’alimentazione degli antichi Romani, della dieta mediterranea e italiana antica, del nudismo. Nel 1975 ha fondato la Lega Naturista, primo club ecologista e salutista in Italia, e nel 1977 ha ideato il I Referendum anti-caccia. Ha scritto dieci manuali, tra i quali L'Alimentazione Naturale (edito negli Oscar Mondadori dal 1980 al 2001), il Manuale di Terapie con gli Alimenti (1995), Il Piatto Verde (1986), La Tavola degli Antichi (1989). Come storico dell'alimentazione nell'Antichità classica, ha diretto il Seminario teorico-pratico di specializzazione del Ministero della Pubblica Istruzione (1992). Come scrittore-blogger cura attualmente la redazione di nove blog, tra cui due di aggiornamento scientifico sull’ Alimentazione Naturale e la Dieta Vegetariana sana, uno di Ecologia, uno sui Sonetti e il mondo del poeta “romanesco” G.G.Belli, uno di critica e commenti sulla cultura della Ragione (Salon Voltaire), uno generalista, il presente blog Nico Valerio, uno di versi satirici, e un altro di disegni dal vivo tratti dalla Natura.

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NICO VALERIO. Studioso, scrittore scientifico, conferenziere, docente, commentatore di cultura, costume e politica, critico, polemista, giornalista in gioventù, interessato alla divulgazione scientifica, alla cultura, alla storia delle idee e alla critica, alla storia del cibo (soprattutto l’alimentazione degli antichi Romani), alla dieta mediterranea e italiana antica, alla dieta vegetariana sana, al  nudismo, è anche il teorico italiano del Naturismo nella sua accezione più ampia e storica di movimento filosofico-scientifico per la riforma della vita, e in particolare dell’alimentazione sana e antropologica (perciò “naturale” per l’Uomo, come per primo l’ha definita), e della prevenzione e terapia con gli alimenti.

BIOGRAFIA
Vive a Roma, dove e si è laureato alla Università Statale “La Sapienza”, e specializzato. Ha svolto lunga attività di critica e giornalismo scientifico, di inchiesta, culturale, politico e di costume.

VALORI E INTERESSI. Non potrebbe vivere senza i suoi tanti interessi e valori, che da perfetto “polifilo” considera tutti ugualmente importanti e addirittura collegati tra loro, come altrettanti aspetti della propria personalità (in ord. alfab.): alimentazione, arte, ateismo, bellezza e paesaggio, critica, cultura, disegno, ecologia, escursionismo, giornalismo, jazz, liberalismo, libertà, musica, Natura, naturismo, nudismo, poesia, politologia, psicologia, ragione, satira, scienze, scrittura, storia delle idee e saggistica, umorismo, vegetarismo, vita sana.

LIBRI

Il carattere quasi monotematico dei suoi libri non tragga in inganno: dipende dal Caso, cioè dalle richieste degli Editori. Un libro, infatti, si scrive per gli altri, non per se stessi. Se fosse dipeso da lui, avrebbe scritto libri e saggi anche su tutti gli altri temi nei quali si riconosce:
Alimentazione Naturale copertina II ed. mela (NV medio 1993) L’Alimentazione Naturale (sottotitolo: “La prima guida completa al mangiare secondo natura”). Mondadori, Milano,  I ed. 1980, pag.347; ultima ed. 2001, pag.760. E’ stato il manuale della riscoperta del cibo sano e “naturale” (nel senso di “naturale per l’Uomo”, ovvero tradizionale o antropologico, provato per prove ed errori, dunque “cibo elettivo” della specie), ma rivisto alla luce della scienza moderna. Il libro, e soprattutto il suo titolo, è stato a lungo un simbolo dell’alternativa alimentare, e anche un long-seller per 20 anni, con numerose edizioni e ristampe. Nell’ultima edizione l’opera era ormai un manuale enciclopedico con il pro e il contro di ognuno degli oltre 500 alimenti su cui è basata l’alimentazione umana, l’analisi dei principali componenti nutrizionali ed extra-nutrizionali, e dei principi attivi farmacologici, l’esposizione critica di tutti i regimi alimentari e le diete, e cenni sulle tecniche di cucina e l’uso gastronomico. Il manuale fonda le sue affermazioni su migliaia di studi scientifici della Scienza moderna (tutti citati per autore), partendo dalla grande tradizione dei medici e nutrizionisti naturisti europei del Novecento, come il dottor P.Carton (1) che continuavano la tradizione ippocratica (2), secondo il motto “Il cibo sia la tua medicina, la tua medicina sia il tuo cibo”, che si rifà a Ippocrate, “fondatore” della medicina scientifica, ma nei secoli successivi anche simbolo dell’alimentazione e della medicina “naturiste”, essendo il primo significato storico di Naturismo quello di una “dottrina che affida alla natura l’azione risanatrice dell’organismo malato, riconoscendo alla terapia medica una funzione puramente ausiliaria” (3). Oggi, però, l’espressione “alimentazione naturale” è diventata di moda, fino a degradarsi - basta dare uno sguardo ad internet - ed è spesso usata a scopi commerciali e speculativi, o per veicolare diete strampalate e filosofiche, né tradizionali né confermate con prove scientifiche dalla ricerca moderna, o addirittura basate su artificialissimi integratori. Perciò, mai come in questo campo, il lettore è invitato al massimo senso critico e ad una certa diffidenza metodologica per le asserzioni prive di prove con studi affidabili.

Manuale Terapie Alimenti copertina I ed. (NV 1995 medio) Manuale di Terapie con gli Alimenti (sottotitolo: “Tutti i più moderni metodi scientifici per curare e prevenire le malattie con l’alimentazione”). Mondadori, Milano 1995-2001, pag.735. Manuale completo e prontuario teorico-pratico di prevenzione e terapia per tutti, dal professore universitario alla casalinga, grazie a sette diversi livelli di scrittura e approfondimento in cui è divisa ogni voce (in questo senso, il volume è un “ipertesto”). Dal diabete al cancro, dall’eccesso di colesterolo alla nausea da movimento, dai capillari fragili alla stipsi, dal mal di testa alla vaginite, oltre 50 tra sintomi e sindromi più comuni sono trattate con riguardo alle scoperte scientifiche più serie. Per studiosi, nutrizionisti, dietologi, studenti, medici e operatori della salute, il volume è la prima ampia ricognizione sullo stato dell’arte della ricerca biologica, biochimica, medico-clinica, epidemiologica e tossicologica sui principi attivi farmacologici contenuti negli alimenti e sulle proprietà terapeutiche e preventive di alimenti singoli e diete nel loro complesso, come si evince dal noto rapporto Who-Fao (4). La ricerca è stata condotta sulla base di oltre 3000 studi, tutti riferiti in modo completo. La ricchissima bibliografia scientifica è suddivisa in tre livelli: in ogni pagina, alla fine di ogni capitolo e alla fine del manuale. Al largo pubblico, il manuale intende offrire, sulla base della raccomandazione del WHO-OMS di combattere la tossicità delle terapie riducendo l’assunzione dei farmaci ed eliminando quelli inutili, una guida pratica e la più efficace possibile che, d’accordo col medico curante (che potrà consultare gli studi scientifici riferiti e descritti), aiuti a fare prevenzione col cibo e a diminuire eventualmente – se il medico lo ritiene - l’impatto farmacologico convenzionale. A tutti, il manuale rivela che la scienza moderna, in molti casi confermando la tradizione etnologica, prova l’efficacia preventiva o curativa di numerosi alimenti, non solo quelli “biologici” ma anche quelli “normali” in vendita nei supermercati.

Tavola degli Antichi copertina (NV 1989 medio) La Tavola degli Antichi (sottotitolo: “In cucina con i faraoni, con Pericle e Lucullo, con Nerone e Messalina”). Mondadori, Milano 1989, pag.328. Prima ricerca insieme completa e sintetica su tutto quello che si sa con certezza dell’alimentazione realmente praticata nell’antichità classica, soprattutto dei Romani (ma anche di Etruschi, Greci, Egizi e Mesopotamici), al di là delle leggende e delle ricostruzioni fantasiose del cinema, di libri romanzeschi e menù di ristoranti, sulla base esclusiva di fonti archeologiche, saggistiche, della letteratura dell’epoca e delle risultanze scientifiche degli studiosi di oggi, dal trattato universitario dell’André (5) alle scoperte archeologiche sulla Roma arcaica (6), dalle citazioni letterarie di scrittori e scienziati dell’epoca altrimenti perdute (7) ai più seri lavori italiani precedenti (8). Ne emerge, al contrario di leggende culturali alimentate dalle stranezze gastronomiche del cuoco alla moda Marco Gavio, soprannominato Apicio, nel suo De re coquinaria (9) e del famoso episodio dell’opulentissima e grottesca cena del liberto arricchito Trimalcione nel romanzo Satyricon di Petronio (10), un regime alimentare sano, poco o per nulla eccentrico, insomma la base della futura “dieta mediterranea”. In appendice una ricostruzione moderna e molto pratica delle ricette gastronomiche antiche, compresi due modi, uno rapido e l’altro più elaborato, per preparare il famoso garum, condimento a base di salamoia di pesce. Le più importanti ricette romane ricostruite nel volume sono state poi realizzate con rigore filologico e plausibilità gastronomica nel Corso nazionale di “Storia comparata delle risorse e della cucina: l’antica Roma”, per l’aggiornamento di docenti e chef degli Istituti alberghieri di Stato. Il Corso, voluto dal Ministero della Pubblica Istruzione, è stato condotto dell’autore, con lezioni quotidiane, dispense e regia delle preparazioni pratiche, a Villa Gradenigo Dolfin (Istituto alberghiero Giuseppe Maffioli) di Castelfranco Veneto, Treviso, dal 6 all’11 aprile 1992 (11).

Il Piatto Verde (sottotitolo: “Guida all’alimentazione vegetariana). Mondadori, Milano 1992-2001, pag.274.
La Vegetarian Society fu fondata nel Regno Unito nel 1847, e nel 1897 aveva già 5000 membri. Anche George Bernard Shaw vi fu iscritto. E quando il giovane indiano Mohandas Gandhi arrivò a Londra per studiare da avvocato fu sorpreso di trovarvi non solo un’associazione ma anche dei ristoranti vegetariani: così decise di riprendere il vegetarismo delle sue origini. Seguendo l’impostazione di Gandhi, molto attento contemporaneamente agli aspetti nutrizionali, medici, storici e morali del vegetarismo, questa guida completa e sintetica alla dieta vegetariana fornisce in estrema sintesi una informazione circolare su tutti gli aspetti del mangiare vegetariano, dall’etica e all’economia e alla prevenzione delle malattie, cosa molto utile in tempi di sofisticazioni, residui di pesticidi negli alimenti, epidemie come “mucca pazza”, conclamati maggiori rischi di cancro da eccessivo consumo di carne, e inquinamento e dilapidazione delle risorse vegetali ed energetiche provocati dagli allevamenti animali. Il vegetarismo viene qui rappresentato in sintesi in tutti i suoi aspetti (storia, filosofia morale, scienza, nutrizione, gastronomia ecc. La diffusione del vegetarismo, specialmente tra i giovani, imponeva un vademecum di base che contemperasse le ragioni dell’etica e quelle delle esigenze nutrizionali, le tradizioni culturali e una gastronomia semplice e poco elaborata, in modo da evitare di cadere nelle credenze e negli errori tipici dei neo-vegetariani, come l’istintivo eccesso di formaggi e dolci, una dieta troppo ricca o troppo scarsa di calorie e dunque di nutrienti, o l’illusione che la vitamina B12 non sia importante oppure che si possa continuare a mangiar male per poi “mettere tutto a posto” con una compressa di vitamina o integratori da acquistare in farmacia o nella bottega “bio” (“dieta farmaceutica”).

Tutto crudo copertina (NV 1985 medio) Tutto crudo (sottotitolo: “La prima guida completa agli alimenti vivi: gastronomia e salute”). Mondadori, Milano 1985, pag.303.
Il manuale che spiega in teoria e in pratica perché e come consumare tutti gli alimenti – non solo vegetali, ecco una delle novità, ma anche carni e pesci – senza cottura. Ma perché mangiare senza cottura? Per almeno cinque motivi. 1. La praticità e il minor tempo disponibile in vacanza o nelle emergenze (barca, campeggio, viaggio ecc). 2. L’adesione ad un modello antropologico culturale atavico (crudismo naturista) ritenuto ideale, quasi un ritorno ad una “Età della Natura”. 3-4. Più concrete ragioni salutistiche, ovvero ricavare il maggiore nutrimento possibile e la maggior efficacia protettiva dai principi attivi degli alimenti prima che la cottura li degradi o riduca. 5. Infine per evitare le sostanze tossiche e cancerogene (p.es. amine eterocicliche, benzo(a)pirene, acrilamide ecc.) prodotte dalla cottura stessa, specialmente se ad alta temperatura. Circostanze che la scienza attuale ha puntualmente dimostrato in migliaia di studi, con le uniche controindicazioni in caso di parassiti (pesce e carni) o di vegetali inquinati da flora batterica e non ben lavati, casi in cui il crudo può costituire un pericolo. La tendenza crudista è sempre stata presente nella tradizione culturale naturista o ippocratica, basti pensare ai grandi medici naturisti, non solo Carton, ma anche lo svizzero M.Bircher-Benner (12) che nel suo sanatorio di Zurigo rivalutò il cibo senza cottura come “cibo della salute” facendo servire ai suoi pazienti pasti spartani ricchi di alimenti crudi, compreso il famoso muesli, zuppa mista di avena e altri cereali crudi in fiocchi, con frutta fresca e secca. Questa colazione, in origine rozza e montanara, poi si è modificata e arricchita nel tempo diffondendosi in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, il medico J.H.Kellogg (13) sposò la tesi del cibo crudo come preventivo e curativo, tanto da creare un’industria di cereali da colazione. Anche in Italia medici, dietologici o divulgatori naturisti, come G.Tallarico e G.Paoletti dedicarono nelle loro opere pagine al crudo. Il più noto di questi, E.Alliata di Salaparuta (14). E oggi, solo perché riscoperta dagli americani, è diventata una moda un po’ snob, anche se ristretta stranamente all’ambiente vegetariano del cibo crudo, il movimento detto “Raw Foodism”. La ricerca ha accertato il carattere salutare del crudismo, quasi sempre però visto erroneamente come sottospecie del vegetarismo, come si vede in una review di studi, ma molto spesso coincide con la dieta vegan, quindi con i rischi tipici del veganismo (carenze di B12, calcio assimilabile ecc).  Rischi che non dovrebbero esserci col crudismo completo, se fosse preso in considerazione con studi scientifici seri.

Mangiare italiano (sottotitolo: “I piatti ricchi della cucina povera”). Mondadori, Milano 1988, pag.260. Guida originale e sintetica alle tradizioni antiche o poco note dell’alimentazione italiana tradizionale, che non era certo fondata sulla triade “pomodoro, pizza & spaghetti”, tantomeno patate, tutti cibi recenti (gli spaghetti e le altre paste trafilate, p.es., sono stati prodotti dalle filiere industriali solo a partire dal primo Ottocento, prima in Liguria e poi nel Napoletano), ma che aveva migliaia di piatti e ingredienti curiosi, oggi insoliti, risalenti all’antichità etrusco-romana o al Rinascimento, tra cui i maccheroni – artigianali e fatti a mano – bolliti, conditi nei primi tempi solo con lo zucchero e poi con solo formaggio grattugiato (lontani eredi e mediati dai Siciliani-Arabi delle lagane romane fritte o al forno condite di miele, oggi note come frappe o chiacchere di Carnevale, o abbrustolite al forno e poi alternate a strati di ricotta nel famoso timballo definito “placenta” da Catone), il biancomangiare di latte con petto di pollo e con mandorle, la panzanella di pane intriso di agresto (sorta di aceto leggero ottenuto pressando e lasciando fermentare l’uva acerba di agosto) cosparso di cipolla ed erbe, ovviamente senza pomodoro, allora inesistente, o il proverbiale calmante “brodo di giuggiole” (zuppa dolce-acidula di frutti di Zizyphus vulgaris L.), e perfino una contadina minestra di semi di canapa. Ne deriva un quadro pre-industriale e contadino della dieta italiana, priva anche di patate, che non trova confronti con quella attuale.

Il cibo della bellezza. Mondadori, Milano 1991, pag.273.
Una guida elementare e molto divulgativa, consistente in una raccolta di articoli pubblicati dall’autore con pseudonimo su vari settimanali “di salute naturale” o femminili, sull’importanza di una alimentazione corretta, completa e tradizionale (“mediterranea antica”, cioè basata su cereali integrali, verdure, legumi e frutta), e sul minore impiego possibile della cottura o stracottura, per cercare di ottenere insieme con l’equilibrio delle funzioni dell’organismo e i minori rischi di malattia, anche il miglioramento dell’aspetto fisico. Contiene anche curiosità, segreti e trucchi alimentari per combattere le rughe, mantenere l’abbronzatura, perdere peso e conservare una perfetta forma fisica. Un’appendice di suggerimenti gastronomici per principianti conclude la guida.

Grüne Genüsse (sottotitolo: “Vegetarische Gaumenfreunden aus Italien”). Papyrus Verlag, Hamburg 1988, pag. 153 [in lingua tedesca].
Una guida pratica gastronomica vegetariana, a base degli alimenti e delle pietanze “più italiane ed esotiche” agli occhi degli acquirenti nordici, adattata per il pubblico germanico da Evelyn Horsch.

Ginseng (sottotitolo: “La radice della vita”). Aporie, Roma 2000, pag.261.
Vuole essere il manuale più completo che aggiorna lo “stato dell’arte” esistente dopo il testo del Fulder (15), ma anche il più raziocinante e critico sulla radice più costosa e comunque economicamente più importante dell’erboristeria, su cui sono sorte leggende e speculazioni incredibili, a cominciare dalle origini storiche e botaniche. Scritto scrupolosamente sulla base di centinaia di studi scientifici (circa 500), tutti riferiti correttamente e poi riportati in elenco nell’indice dei riferimenti, che ne suggeriscono o cercano di provarne l’impiego terapeutico, rivelando anche in alcuni casi le speculazioni commerciali, e perfino i casi di evidente manipolazione di ricerche scientifiche. Il saggio smentisce alcune antiche leggende e molte recenti furbizie della pubblicità sulle riviste di erboristeria, rivela nuovi usi, nuove proprietà e nuove molecole contenute. I ginsenosidi, ad esempio, non sono più gli unici principi attivi accertati, ma si deve considerare secondo gli studi recenti anche la probabile azione sinergica dei numerosi polifenoli presenti nella radice. Il volume rivela anche le scorrettezze di certa ricerca scientifica coreana caduta in conflitto di interessi, dato che la Corea è un paese produttore di ginseng in regime di monopolio di Stato, e dà finalmente spazio alle gravi riserve e perplessità scientifiche del Lewis (16) e del Duke (17) sulla reale e dimostrata efficacia della radice sull’uomo. Il manuale è diviso in capitoli, a seconda delle applicazioni preventive e terapeutiche della radice. Con una ricca bibliografia scientifica.

Guida al Nudo copertina Sugarco (chiara)(giugno 1980) Guida al nudo (sottotitolo: “Il corpo libero, il nudo e la nudità nel primo manuale completo”). Sugarco 1980, pag.254.
Un saggio breve e in stile sintetico sulla nudità nell’uomo e nella donna, vista attraverso storia, costume, psicologia, diritto, sessualità, religione, filosofia, ecc. La parabola storica del nudo dalla vita di tutti i giorni dell’Uomo primordiale all’arte,  dai primi penitenti religiosi (18) alle proteste dello streaking degli anni 70 del Novecento, fino alle origini e all’evoluzione del movimento nudista, che è stato solo un aspetto, l’ultima conseguenza del concetto della riforma del vestiario e dello stile di vita del grande movimento del Naturismo internazionale, secondaria e non essenziale, come hanno scritto G.Ghirardelli, il maggior organizzatore e divulgatore pratico del nudismo in Italia, fondatore della ANITA, la più grande associazione nudista italiana, e il teorico L.Paoletti (19). Perciò, in pratica, contro un luogo comune diffuso per pigrizia e malinteso “pudore” linguistico negli ultimi anni, si può essere nudisti senza essere naturisti (che è la cosa più comune, visto il disinteresse per l’alimentazione naturista, le medicine naturali e l’ambiente di gran parte dei nudisti), così come si può essere naturisti senza essere nudisti (è quello che accade più di frequente: si pensi ai milioni di ecologisti e ambientalisti in tutto il mondo, nessuno dei quali è nudista). Tutto il volume, perciò, è teso a dimostrare con decine di esempi – e questa, insieme alle rivelazioni storiche, a modesto parere dell’autore, è la parte più originale del saggio – la non coincidenza, e spesso lontananza di due concetti, il nudismo e il naturismo, oggi erroneamente confusi. In appendice una dettagliata guida critica ai club di vacanze nudiste, che oggi andrebbe aggiornata.

CORSI E SEMINARI
”Alimentazione e cucina nell’Antica Roma”. Su commissione del Ministero della Pubblica Istruzione, e sulla base delle fonti scientificamente e storicamente accertate, ha ideato e diretto il primo e unico Corso professionale teorico-pratico di Alimentazione e Cucina ai tempi degli Antichi Romani, come aggiornamento per docenti-cuochi e allievi degli Istituti alberghieri di Stato, con lezioni teoriche (4 ore al mattino), realizzazione pratica in cucina (4 ore al pomeriggio) e presentazione di una cena romana completa alla sera (Castelfranco Veneto, 6-10 aprile 1992)(11).

Tiene periodicamente Corsi e Seminari di aggiornamento su Teoria e Pratica della sana Alimentazione Naturale, Terapie e Prevenzione con gli Alimenti, Cucina senza cottura (crudismo), Dieta Vegetariana corretta, ecc.

GIORNALISMO CULTURALE, DI INCHIESTA, SCIENTIFICO, POLITICO
Il Mondo testata Ha scritto inchieste, articoli e commenti per Il Mondo, La Repubblica, L’Espresso, Corriere della Sera, Panorama, L’Europeo,  Sette Giorni, Fiera Letteraria, Il Globo, Sipario, L’Astrolabio, Aut, Scienza 2000, Test, ecc.
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CRITICA E RADIO
Ha scritto di critica e attualità musicale su numerose testate, tra cui Il Mondo, L’Espresso, La Fiera Letteraria, La Repubblica, Sette Giorni, Musica Jazz, L’Europeo, Il Globo, Audiovisione, ecc. Ha condotto il programma culturale “Jazz” a Radio Tre Rai (testi e musiche). Ha condotto (testi e musiche) il programma “Pranzo alle otto” a Radio Tre, Rai, chiamato dal direttore Enzo Forcella.

BLOG
Come scrittore-blogger scrive su nove blog personali di approfondimento scientifico, cultura, ecologia, politica, commenti, disegni, critica, poesia e satira (Nico Valerio, Alimentazione Naturale, Love Vegetarian, Salon Voltaire, Il Mondo del Belli, Ecologia Liberale, Versi Diversi, Arte della Natura, Liberali Italiani. Ha ideato, realizzato e redatto il blog sperimentale di Italia Nostra (nov. 2006) e quello di Bibliothè.

 

NOTE
1. P. Carton, Traité de medécine, d’alimentation et d’higiène naturiste, Paris 1920.
2. Ippocrate, Opere. A cura e con prefazione di M.Vegetti, UTET, II ed.,Torino 1976.
3. A. Gabrielli, Grande Dizionario illustrato della lingua italiana (2 voll.), Milano 1989, p.2302-2303.
4. C. Fayer, Aspetti di vita quotidiana nella Roma arcaica, L’Erma di Bretschneider, Roma 1982.
5. WHO-FAO, Diet Nutrition and the Prevention of Chronic Diseases. WHO Technical Report Series 916, 2003.
6. J. André, L’Alimentation et la cuisine à Rome, Les Belles Lettres, Paris 1981.
7. Ateneo di Naucrati, Deipnosophistés, I dotti a banchetto (IV voll.). A cura di L.Canfora. Salerno editrice. Roma 2001.
8. A. Dosi-F. Schnell, A tavola con i Romani antichi. Roma 1984.
9. M. Gavius Apicius, L' arte culinaria. Manuale di gastronomia classica. Testo latino a fronte. A cura di G. Carazzali, Bompiani 2003.
10. Petronio Arbitro, Satyricon. Testo latino a fronte. A cura di V.Ciaffi. Traduzione di E.Sanguineti. Einaudi 2003.
11. G. Leon, Alberghiero: si scopre la cucina dell’antica Roma, Il Gazzettino di Treviso, 15 aprile 1992. Stefano Negro, Piccante e senza zucchero la cucina di Roma antica, La Tribuna di Treviso, 12 aprile 1992.
12.  M. Gandhi, My Life. trad.it.: La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma 1994.
13.  K. Bircher Root, Il Libro della salute Bircher-Benner, Sperling & Kupfer 1979.
14.  R.W. Schwarz, John Harvey Kellogg, M.D., Andrews University Press, Berrien Springs, MI, 1981.
15.  E. Alliata di Salaparuta, Cucina vegetariana e naturismo crudo, Sellerio, Palermo 1973.
16.  S. Fulder, The Tao of Medicine: Ginseng, Oriental Remedies etc (trad. it: Il Tao della medicina, Meb 1996).
17.  W.H. Lewis, Ginseng, a medical enigma (in N.Etkin, Plants in Indigenous Medicine etc, Redgrave, Bedford Hills, New York 1985)
18.  J.A. Duke, Ginseng, a concise handbook, Reference, Usa 1989.
19.  “Quanti uomini, e soprattutto in Turchia, vanno nudi per devozione!” (M. de Montaigne, Essais, trad. it: Saggi, 2 voll. Milano 1970).
20.  G. Ghirardelli, lettera privata 13 aprile 1978, pubblicata sulla rivista Info Naturista, luglio-settembre 2000. E si veda anche il ruolo che ha il nudismo nel libro-base del Naturismo italiano, sempre citato dal Ghirardelli, quello di L. Paoletti, Naturismo, arte del vivere, Rogai, 3.a ed., Milano 1945.

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