MUSICA. Il jazz si può insegnare? La verità sul boom delle scuole popolari.
TI BOCCIO: HAI FATTO UN ACCORDO DI DESTRA
In Italia pullulano le scuole di jazz. Ma a che cosa servono? Il jazz si può insegnare? Jazzisti si nasce o si diventa? Andiamo per ordine: intanto vediamo come sono fatte queste scuole
NICO VALERIO, L'Espresso, 10 dicembre 1978
Roma. Le chiazze di sangue sulle pareti sono state imbiancate di calce. Dell'antico luogo di tortura e violenza non rimane quasi nulla, forse cattive vibrazioni, e di notte l'eco di qualche sinistro muggito o d'un belato agghiacciante, tanto per fare atmosfera. Restano gli "uncini", orribili ganci al soffitto per le vittime appena uccise e a cui – aggiunge una biondina con humour nero – finiranno, prima o poi, “suspendus” alla Villon, professori ritardatari e allievi assenteisti, Già, chi lo direbbe, siamo proprio in una scuola.
Alle pendici del "monte" Testaccio, un' antica montagnola di detriti ("testae" per i romani erano i cocci), negli umidi stanzoni d'una dipendenza del mattatoio, ora proprietà d'una banca, funziona abusivamente una scuola di musica che ha fatto epoca, sollevando accesi entusiasmi e polemiche spesso ingiustificate, mettendo a rumore il mondo degli asfittici Conservatori e l'inquieta jazz-scene italiana. Veniva rimproverato ai giovani insegnanti di Testaccio di fare più politica che insegnamento musicale, anche il carattere assembleare delle decisioni, perfino di quelle sulla didattica, dava fastidio. Ma come, allievi e insegnanti nella stessa commissione, a decidere programmi e metodi? All'inizio sembrò un concentrato di "sessantottismo" in ritardo, utopia realizzata al cento per cento.
Nei primi tempi, si era ancora nel 1975, la cosa fu presa un po' sottogamba dai critici jazz, gli unici ad averne avuto sentore per ragioni professionali. Il jazz si può insegnare?, si chiesero i più scettici. Certo, da anni in America funzionavano egregiamente decine di scuole di jazz e di musiche "aliene", ovvero di matrice non europea. Dalla Julliard e dalla Berkeley erano usciti i giovani tecnocrati del sax e del trombone, intere sezioni di fiati per le orchestre di Woody Herman e di Kenton. Anzi, si parlava anche, con una smorfia di disgusto ("tipiche americanate"), dei metodi da Berlitz School, da corso intensivo di lingue, utilizzati in qualche scuola.
In un salone tanti box individuali con oblò di vetro, strumento e microfono. L'insegnante si collega elettronicamente con ognuna delle cellette monacali, veri containers musicali dove il principiante sudando per il caldo e l'emozione cerca di dare il meglio di sé. « Lei, sig. Johnson, va benino ora; più staccate quelle note, sig.Terry », gracchia in cuffia il sadico prof. elettronico, commutando di continuo la manopola sul cruscotto. Con questo sistema un solo insegnante può accudire a 20-30 allievi per volta. Roba da "polli in batteria" obiettavano in Italia, scandalizzati dall'ardire tecnologico degli americani. E poi, pensava più d'uno, jazzisti si nasce non si diventa.
Il successo della prima scuola libera di jazz e di musica, coordinata dal bassista Tommaso (300 iscritti già nel secondo anno), fu perciò interpretato come un'iniziativa alternativa tipicamente italiana, andata una volta tanto a buon fine. Un tocco di francescanesimo, molto anticonsumismo, pochissimi soldi, e tutti i poteri all'assemblea degli allievi. Dopotutto era la prova che anche il jazz si può insegnare. Allora è stato il "boom". Per incanto, come se "radio-musica" avesse diffuso a 360° un messaggio concordato, sono sorte ovunque, specie nel Centro-Nord, decine di scuole. Prima le più politicizzate, o di avanguardia, dove si partiva da Coltrane ignorando magari lo swing e perfino il be-bop di Parker, poi quelle più solide per basi economiche e metodi didattici, sul tipo dell'Istituto nazionale di studi sul jazz, messo su a Parma da Lorenzo Cuneo, considerata la migliore scuola made in Italy; infine i corsi e i seminari locali gestiti., dall'Arci, il centro ricreativo vicino al Pci, che si è buttata a pesce su un filone così promettente e, ciò che più conta, di forte aggregazione giovanile.
Insegnare solo jazz o no?, si sono chiesti subito i responsabili delle scuole. E' prevalso il compromesso di evitare, talvolta, la parola "jazz" nell'intestazione pur di riservare alla cultura musicale afro-americana la parte del leone. Gli insegnanti, del resto, vengono quasi tutti dal jazz professionale: Fatto sta che le scuole popolari di musica e quelle strettamente "jazz oriented" sono quest'anno una trentina. Un fenomeno nuovo, che non ha precedenti neanche all'estero, e che tutt'al più può confrontarsi con l'analogo "boom" delle radio private.
La proliferazione è stata così rapida che, la cultura ufficiale, gli intellettuali, i responsabili dei partiti; anche di sinistra, non hanno fatto in tempo a farsene un'opinione. Le incomprensioni, anzi, non sono mancate. Il responsabile della musica per il Pci, Luigi Pestalozza, in un articolo sull' "Unità" ha definito riduttivamente quella di Testaccio solo «una scuola privata » e soltanto di recente, quando ormai l'Arci cominciava a diffondere a ragnatela i suoi corsi di musica, ne ha ammesso la rilevante funzione sociale. In pratica una forma di "surroga" nei confronti dello Stato.
Quello, poi, che ha meravigliato sia i vecchi loggionisti della Scala che gli amatori quarantenni di jazz, già messi sull'avviso dalle strane code davanti ai botteghini delle sale da concerto e dalle adunate oceaniche di Umbria jazz, è stato che dei ventenni avessero una fame così pantagruelica di quelle che Louis Armstrong chiamava «cacatine di mosca», cioè le note musicali, ma anche di spartiti e arrangiamenti. Dopo una contestazione decennale alla scuola, anzi allo studio, non era pensabile che una classe di ventenni facesse la fila per iscriversi ad una scuola, neonata, che non rilascia diplomi e non è certo uno "status symbol", neanche per i giovani.
Le esigenze però sono reali. Di jazz nei Conservatori nessuno vuol sentirne parlare. Tuttora vi domina uno spirito altezzosamente eurocentrico, che esclude non solo il jazz ma anche le musiche dotte orientali, per non parlare della musica popolare. Ma anche la musica colta europea viene insegnata malissimo: dopo tre anni di frequenza capita che un allievo cominci a malapena a "leggere" con lo strumento. A causa dei pregiudizi romantici abbondano i corsi di violino e pianoforte, mentre scarseggiano quelli per fiati, specie sassofoni – richiesti da chi proviene dalla provincia, forse per l'effetto di suggestione della banda locale – per di più quasi non esistono i corsi per batteria e percussioni. E' naturale che nelle scuole libere i corsi per strumenti da banda e jazz (sax, clarinetti, tromboni, batteria) si prendano la rivincita.
E poi, che cosa dà lo Stato a questi giovani? Di fronte a tanta "domanda" musicale, l'offerta in tutto il Lazio è rappresentata da due soli Conservatori, a Roma e a Frosinone, con poche aule, insegnanti e programmi vecchio stile, anacronistici esami d'ammissione, paternalismo, criteri elitari. « Lo scopo è di creare tanti piccoli Rubinstein », dice il pianista Amedeo Tommasi, che insegna teoria alla scuola St. Louis di Roma, « ma solo 1'1 o il 2 per cento raggiunge la meta; gli altri formano una palude di cattivi "lettori", incapaci perfino di suonare una canzonetta. Invece, bisogna liberarsi della schiavitù della lettura e fare musica in modo autonomo. Altro che musicista-esecutore, passivo e schiavo dello strumento. Noi insegnamo a diventare musicisti-autori, ad esprimere in musica in modo immediato ciò che si sente, piegando lo strumento se necessario, non lasciandosi piegare ». Insomma, una concezione anglosassone del "far musica", o una sorta di poetica dello "Sturm und Drang" applicata al jazz?
Questa "rivincita" però spiega il fenomeno delle 9 scuole sorte a Roma, delle 5 a Milano e così via, regione per regione. Al Testaccio si sono presentate nei giorni scorsi 800 persone, ma solo 300 hanno potuto essere accolte: gli altri, sono in "lista d'attesa". Folla analoga alla Nuova Milano Musica e all'Istituto del jazz di Parma. Il corso di Giorgio Gaslini al Conservatorio di Milano ha avuto lo scorso anno ben 600 allievi. Ovunque una ressa incredibile, bambini trascinati dalle mamme (poi però ritirati per colpa, sembra, delle "troppe parolacce" e dell'ambiente "di sinistra"), caos, gomitate. Talvolta le quote sono anche di 25 mila lire al mese. Sorgono scuole non solo in centro, ma anche in borgata o nei paesi, come la Alessandrina a Roma e quella di Mentana. Senza contare i corsi di musica presso enti e club culturali.
E' un « processo di musicalizzazione » irreversibile della nostra cultura, dice Amedeo Tommasi. Il boom dell' ascolto musicale di questi anni ha il suo peso, c'è la diffusione dell'hi-fi, del disco, la musica trasmessa dalle radio e televisioni pubbliche e private, i concerti e i festival in piazza. « Perfino lo sceneggiato televisivo "jazz Band", di Pupi Avati », sostiene Luigi Toth, coordinatore della scuola Roma jazz, « ci ha portato gente ». Sentono sui dischi o alla radio Charlie Parker o Vivaldi: è naturale che vogliano rifarli. La musica, così, ritorna sempre più al suo ruolo di linguaggio primordiale ed elementare, universale perché di immediata intuizione.
Molti allievi vengono dal Conservatorio. «Magari hanno fatto otto anni e più di pianoforte, sanno leggere ed eseguire la musica (di altri) al piano. Ma non sanno suonare il piano », lamenta Tommasi. Mentre il paradosso è che non tutti gli insegnanti sono diplomati. Alcuni sono dei bravi jazzisti e basta.
E i programmi, i metodi di studio seguiti, sono proprio diversi da quelli di Stato? A sentire gli insegnanti sembrerebbe di sì. Gaslini segue da anni il metodo storico-comparativo, con frequenti accostamenti tra forme jazzistiche e no, analizzandone l'evoluzione storico-stilistica, dai canti di lavoro al free-jazz. Per i più bravi ci sono i seminari interdisciplinari. « A Testaccio si preferisce battere molto sulla pratica d'insieme, mettere subito gli allievi a suonare tra loro, per sviluppare nel confronto la confidenza con la dimensione viva e collettiva della musica », mi spiega Celestino Dionisi. E questa sembra la novità più appariscente della metodologia delle scuole libere. Ai "laboratori liberi" – ci sono lavoratori "A" (per evoluti) e "B" (per principianti) – possono partecipare anche i non iscritti, purché sappiano tenere in mano uno strumento.
Al St. Louis – forse l'unico caso tra le scuole libere – c'è perfino un corso di composizione, accanto al solfeggio e all'armonia. « il nostro è un metodo elastico », spiega Tommasi. «Professionistico per l'1 o 2 per cento degli allievi che sceglie la strada professionale, dilettantistico per gli altri. Una lezione di pianoforte dura anche quattro ore. Chiunque entra ed esce quando gli pare. I principianti vengono all'inizio e se ne vanno quando cominciano a non seguire più; gli evoluti vengono più tardi. Ma in genere preferisco lasciare un allievo bravo per seguire gli altri: dopotutto il nostro scopo è quello di elevare il livello medio musicale, più che sfornare musicisti di grido. Certo, diamo molta importanza alle basi teoriche. Non è vero che queste non servano per fare "free-jazz" o musica improvvisata. Servono, eccome. Si sente che un Archie Shepp, o anche un Massimo Urbani, conoscono la cultura jazzistica, le tradizioni ».
Prima regola perciò è "semplificare le regole". «Mentre i "greci" [gli insegnanti del Conservatorio romano di via dei Greci, NdR] ci mettono tre anni per far entrare in "testa i primi rudimenti, noi ci impieghiamo tre settimane ». Quasi ovunque, in effetti, si inizia subito col solfeggio cantato: in due mesi l'allievo sa solfeggiare dal do fino al mi, in quattro completa la scala.
Ma non basta. « Loro usano tutte e sette le chiavi per la lettura, noi facciamo leggere solo nelle due chiavi più importanti: violino e basso », dice Tommasi. « I "greci" continuano a usare termini paradossali, come "semiminima", "semibiscroma", "chiave di tenore" ecc. Non è giusto con l'attuale fame di musica far abuso delle difficoltà ». Ma neanche esser troppo di manica larga: «Ventiquattro dei venticinque allievi del mio corso di piano », aggiunge Tommasi, « si sono dichiarati per un corso "duro". Peccato che siano un po' pigri. Se solo studiassero un po' a casa...».
Dalle scuole libere, però, non stanno venendo fuori i solisti e i gruppi che ci si attendeva. Dopo il trionfalismo iniziale si è ora più cauti e realisti sui risultati professionali del "boom". Per un Paolo Damiani, buon contrabbassista uscito da Testaccio, e sostegno del gruppo d'avanguardia "Strutture di supporto", decine di allievi si sono accontentati dell'hobby del sabato sera, altri hanno abbandonato. «Almeno la metà, 150 allievi, interrompono gli studi», sostiene Toni De Fichy del St. Louis. « L'esodo è più forte nei primi quattro mesi: circa il 35 per cento degli iscritti non si fa più vedere ». Stesse percentuali nelle altre scuole.
Il perché di queste ritirate indecorose si conosce bene. Viene fatto risalire all'estrema superficialità con cui molti ragazzi rispondono agli stimoli della "musicalizzazione" forzata. Basta un lungo assolo di Braxton a Umbria-jazz o – che so – un clarinetto dalla sonorità "dirty" di un imitatore di Johnny Dodds, per accenderli. Subito corrono ad iscriversi, magari in gruppo. Si accorgeranno poi, e sarà un dramma, che per imparare la musica è indispensabile fare molta pratica a casa, anche per ore. Questo li terrorizza. Altri, suggestionati da un certo modo "televisivo" di far musica e dalla diteggiatura del pianista-divo di musica colta, vorrebbero portare anche sulla tastiera jazz quella leggerezza, quel modo "arpeggiato" di suonare gli accordi. « Le ragazze specialmente », nota Nino De Rose – insegnante di piano jazz a Testaccio – « non hanno un tocco jazzistico, non accentano forte, e finiscono per credere che il jazz sia una musica maschilista... ». Così passano al piano classico.
Le donne sono numerosissime. Per 1a prima volta in Italia hanno cominciato a circolare, anche nei jazz-club, ragazze con pesanti custodie di sax e di contrabbassi, portate con disinvoltura, come fossero "beauty-case". Sono tanto numerose che potrebbero organizzare vari complessi di tutte donne, se solo trovassero delle compagne batteriste, piuttosto rare. Insomma, uno spaccato sociale completo, dove non mancano neanche gli studenti-operai (uno su dieci, sostengono al St. Louis) e gli studenti-impiegati, (due su dieci), di solito statali quarantenni, tutti casa e lavoro, ma zelanti.
Nate con l'illuministico proposito di divulgare la cultura musicale, sostituendosi all'inerzia dello Stato, ora però le accademie private vedono proprio nello Stato il proprio avversario. Alcune, quelle più politicizzate, che spesso si trovano in locali occupati abusivamente, possono essere buttate fuori da un momento all'altro dalla polizia o dall'ufficiale giudiziario. Altre lamentano la mancata elargizione di finanziamenti da parte delle amministrazioni locali. Tutte, infine, temono che la progettata riforma scolastica, affidando l'educazione musicale di massa alle scuole, finisca con lo svuotare le ragioni stesse della propria esistenza. Eppure, dicono tutti i coordinatori, un compito sociale, anzi un servizio pubblico, lo stiamo svolgendo.
Per ora, intanto, le scuole funzionano anche come luoghi di ritrovo e di appuntamento per i più giovani, un'utilizzazione cui i mitici fondatori non avevano pensato. Con le case sempre troppo piccole, con uno spazio sempre più ristretto a disposizione, molti ragazzi preferiscono incontrarsi "a scuola". Un modo simpatico e intelligente, come dice con ironia Tommasi, di ritrovarsi, di conoscersi, perfino di rimorchiare le ragazze. « Dopotutto la musica è una grande mezzana ».
NICO VALERIO
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ST. LOUIS E' UNA FRAZIONE DEL TESTACCIO?
Scheda informativa sulle principali scuole libere di musica e di jazz
SCUOLA POPOLARE DI MUSICA DEL TESTACCIO, via Galvani 20, Roma. Corsi di jazz, musica colta, folk, musica da ballo. 37 corsi (21 teorici e 17 strumentali). Tra gli insegnanti Bruno Tommaso, Giancarlo Schiaffini, Martin Joseph, Michele Iannaccone, Nino De Rose. Molti lavoratori liberi. 300 soci, più 200 iscritti ai laboratori, un po' sacrificati per mancanza di spazio. Lezioni: in media da uno a tre allievi per lezione. Quote: L. 20.000 di iscrizione all'anno, più L. 10.000 mensili di frequenza. Impegno scolastico: lezione singola, due ore di laboratorio, due ore di teoria, due ore di solfeggio. Cooperativa di insegnanti e allievi con commissioni miste didattica e amministrativa. Da quest'anno anche un Corso per operatori musicali.
CENTRO JAZZ ST. LOUIS, via del Cardello 130, Roma. 06/483.424. Tutti i corsi teorici e strumentali del jazz, violino compreso. Tra i docenti Amedeo Tommasi, Massimo Urbani, Al Corvini, Roberto Gatto. 250 iscritti. Molto spazio a disposizione. Lezioni collettive più che individuali. Quote: L. 10.000 di iscrizione a ciascuno dei due quadrimestri, più 20 mila mensili. Gratis servizio fotocopie e spartiti. Impegno settimanale: almeno 15 ore, più 12 ore libere per i gruppi spontanei.
ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL JAZZ, via Borgo Felino 31, Parma. 0521/347.53. Direttore Lorenzo Cuneo. Corsi teorici e pratici per ogni strumento, improvvisazíone, orchestra ecc. Ha fama di essere la migliore scuola italiana. Lezioni e impegno scolastico: minimo di 12 ore settimanali. 300 allievi. Quote: L. 15.000 mensili. Nel corpo insegnante figurano i più sperimentati solisti italiani, da Gianni Basso a Franco D'Andrea. A fine corso un concerto-saggio si tiene nella sala Giacomo Ulivi di Parma.
CENTRO STUDI MUSICALI "BRASS GROUP", viale Villa Heleoise 21, Palermo. 091/267.947. Tutti i corsi teorici e strumentali del jazz. Direttore: Ignazio Garsia, 091/522.202 e 254.422. Tra gli insegnanti vari musicisti jazz, tra cui il vibrafonista Enzo Randisi.
CENTRO MUSICA HANS EISLER, Milano. 02/656.160. Coordina il lavoro didattico di cinque scuole musicali, di cui quattro gestite dall'Arci e una, quella della Scuola Umanitaria, dalla Cooperativa l'Orchestra. Il programma di quest'ultima, contrariamente alla prassi in voga in gran parte delle altre scuole, che basano la loro attività didattica principalmente sulla pratica strumentale, consiste in un corso di composizione in cui lo studio dello strumento è considerato come un semplice passaggio verso l'appropriazione dei vari linguaggi musicali, a fini compositivi. I corsi (bisettimanali) tenuti dai musicisti dell"'Orchestra" comprendono: pianoforte, contrabbasso, chitarra, saxofoni, trombone, violino e flauto dolce.
NUOVA MILANO MUSICA, piazza Repubblica 6, Milano. 02/655.555. E' più una scuola privata che una scuola "popolare" di musica. Prevede tutti i corsi di teoria e strumentali del jazz. E' considerata la più seria scuola milanese. Tra gli insegnanti si contano molti celebri jazzisti, da Sergio Fanni a Sante Palumbo.
CENTRO DJANGO REINHARDT, villa Pantelleria, Palermo. 091/588.097. Una villa del '700, fatiscente, restituita all'antico splendore 2 anni fa dall'iniziativa volontaristica degli studenti guidati dal jazzista Claudio Lo Cascio che ne è l'attuale direttore. Attualmente ospita circa 180 allievi. I corsi sono: teoria musicale (obbligatoria per tutti gli strumenti) e poi chitarra, pianoforte, flauto dolce, nonché un piccolo laboratorio di musica elettronica. La scuola popolare di jazz e i seminari d'improvvisazione costituiscono un corso a parte di "perfezionamento stilistico" per musicisti che abbiano già una buona pratica strumentale. La tessera di socio costa 1.000 lire al mese e dà diritto a frequentare tutti i corsi e le attività collaterali del centro (concerti, gruppi di ascolto, seminari ecc.). E' l'esperienza più qualificante del Sud.
N.V.
IMMAGINI. 1. Corso di clarinetto. 2. La big band diretta da Vittorini. 3. Una lezione nei primi tempi della scuola del Testaccio (1975). 4. Il pianista Amedeo Tommasi, insegnante alla scuola di jazz di Saint Louis, nella copertina d’un disco ai tempi del suo trio nei primi anni Sessanta.
AGGIORNATO IL 23 GENNAIO 2015