26 agosto 2009

SUD. A 150 anni dall’Unità, niente più scuse: basta con gli aiuti di Stato.

Vorrei, da figlio di pugliese, che i meridionali italiani che risiedono al Sud, che ancora oggi, a 150 anni dall’Unità d’Italia, incolpano lo Stato, lo Stato nato col Risorgimento, delle loro incapacità millenarie, meditassero su una circostanza rivelatrice.

Quando un meridionale italiano va a vivere nel Nord-Italia o all’estero, senza raccomandazioni di potenti, si comporta tutto sommato dignitosamente, da gran lavoratore, si inserisce bene nella nuova società, non di rado meritando l’apprezzamento di colleghi e autorità, talvolta perseguendo importanti obiettivi. Invece, se resta nel Sud si fossilizza, la sua apatia diventa cronica, i veti incrociati, il pessimismo, le invidie, la corruzione e la criminalità della società meridionale lo bloccano o peggio lo coinvolgono, talvolta per sempre. Insomma, il meridionale, se isolato, si comporta bene, ma è in gruppo che non funziona. La comunità, la società meridionale (da cui deriva anche una mentalità diffusa) è l’unica causa certa della corruzione, dell’arretratezza e dell’inefficienza del Sud.

Questa è la dimostrazione che sono i meridionali stessi gli artefici del proprio successo o della propria sconfitta. Un secolo e mezzo è trascorso dall’Unità italiana, e ormai solo qualche novantenne affetto da Alzheimer è perdonabile se parla ancora di "colpe dei Piemontesi".

Sono stati proprio i grandi studiosi meridionali e meridionalisti – da Dorso a Salvemini, da Croce a De Viti De Marco, da Gramsci a Fortunato e a Compagna, quindi di ogni tendenza: per lo più liberali e democratici, ma anche marxisti – a scrivere sulle gravi colpe della cinica, parassitaria e ignorante borghesia meridionale, che finita la sua comoda vita all'ombra dei Borboni non ha mai avuto né idee né ideali, cioè dignità di classe dirigente che si fa carico anche dei doveri, e che nella Nuova Italia in cambio di qualche privilegio di ceto ha voltato gli occhi dall’altra parte per non vedere, senza muovere un dito per modernizzare la società del Sud.

E non mi si venga a obiettare che ci sono fulgide eccezioni (a cominciare dagli stessi intellettuali meridionalisti, appunto, e oggi da pochi imprenditori coraggiosi e borghesi illuminati): sono un'esigua minoranza che non incide sul tessuto sociale. Perché al Sud i valori dominanti tra la gente sono ben altri. Un'inchiesta tra i giovani meridionali dimostrò pochi anni fa che quasi tutti si fanno o si farebbero raccomandare. Unici al mondo. Li spinge a questo lo Stato italiano? E' colpa di Garibaldi, i Savoia, Bossi? No, perché lo facevano già sotto i Borboni, nell'Ottocento. Si legga riguardo alla corruzione, ai privilegi, alla mancanza di libertà nel Regno delle Due Sicilie, e alla crudele ottusità dei Borboni, la bella e avventurosa autobiografia d'un singolare aristocratico siciliano, che consiglio di leggere (Michele Palmieri di Miccichè, Pensieri e ricordi storici e contemporanei, Sellerio ed).

Non è un caso che al Sud, tuttora, ci siano pochi chioschi di giornali e quasi per niente librerie, ma in compenso tante gioiellerie, banche, pasticcerie, macellerie, ristoranti e negozi di armi.
Finora gli interventi dello Stato per ridurre il secolare deficit meridionale (deficit di cultura, moralità, legalità, iniziativa privata) non hanno funzionato, perché sono andati ad ingrassare le élites parassitarie o criminali della società del Sud. Dunque – argomenta Panebianco in un editoriale sul Corriere della Sera ("Liberalismo e paternalismo, le vie del Sud") – non resta che l’alternativa della via "liberale".

"La via liberale, quella che chi scrive preferirebbe – scrive Panebianco – (e che, nel lungo periodo, credo, sarebbe la carta vincente per il Sud) è quella che dice: solo i meridionali, e nessun altro, possono risolvere i loro problemi. Lo Stato, quindi, offre al Sud, come ha suggerito da tempo l’istituto Bruno Leoni, solo l’opportunità di trasformarsi in una grande no-tax area interrompendo contestualmente i flussi di trasferimento di risorse. Lo Stato resterebbe al Sud solo con gli apparati della forza (per contrastare la criminalità) e i servizi pubblici essenziali. A quel punto, probabilmente, si scatenerebbe un conflitto feroce fra le forze modernizzatrici del Sud (che ci sono) e quel "clientelismo senza risorse", fino ad oggi dominante, di cui ha parlato recentemente il presidente della Confindustria siciliana Ivan Lo Bello. Essendo cambiate le condizioni del gioco, le forze modernizzatrici avrebbero, per la prima volta, la possibilità di prevalere. Solo quando, dopo qualche tempo, si fosse messo in moto un processo di sviluppo auto-sostenuto (con il miglioramento del capitale umano, con una maggiore efficienza delle amministrazioni pubbliche, con una raggiunta capacità di attirare capitali) le varie regioni del Sud passerebbero progressivamente, anche del punto di vista fiscale e istituzionale, nella fascia A, quella delle regioni sviluppate.

"Oppure – continua Panebianco – si può seguire la via paternalista, la quale assume che i meridionali non siano capaci di cambiare le condizioni del Sud. Ma se la si sceglie, bisogna seguirla fino in fondo, coerentemente. In questo caso, è il centro che deve decidere tutto e a tutto sovrintendere. Anche con soluzioni istituzionali drastiche: fine di ogni autonomia regionale (Sanità in testa) e locale, azzeramento delle classi dirigenti colpevoli di sprechi, eccetera. Il problema è impedire che gli interventi modernizzatori del centro vengano distorti e le risorse centrali "catturate " da classi dirigenti locali interessate a sfamare clientele. Come accadde alla vecchia Cassa del Mezzogiorno e come accadrà di nuovo se si mescoleranno ancora centralismo e autonomia, paternalismo e liberalismo. Anche in questo caso, dovrebbe valere l’impegno secondo cui le regioni meridionali nelle quali si riuscisse a generare sviluppo, passerebbero progressivamente nella fascia A, approderebbero alla terra promessa del federalismo fiscale (ma senza più compensazioni e trasferimenti). Se al Sud non si innescherà al più presto un circuito virtuoso di sviluppo autosostenuto giorno verrà che l’unità del Paese sarà a rischio. Le soluzioni pasticciate e improvvisate non aiutano". Così Panebianco.

Eliminare le autonomie regionale, quindi, a partire da quella siciliana, la più scandalosa di tutte, e sottrarre alle Regioni la spesa sanitaria. D’accordissimo. Le Regioni a rischio, senza i soldi della sanità e le truffe collegate (un cerotto in Sicilia costa al cittadino tre volte che nel Nord), dovrebbero cambiare del tutto metodi di vita e, in conseguenza, classe politica locale. Giacché è arcinoto che la motivazione principale per cui ovunque in Italia, ma specialmente nel Sud, ci si avvicina alla politica è la speranza di guadagni e bustarelle. Tolti questi. la politica come professione per i buoni a nulla e i nullafacenti non sarebbe più appetibile. Dovrebbero davvero lavorare.

IMMAGINE. Una antica mappa del Regno delle Due Sicilie. .
JAZZ. La tromba di Clifford Brown, il maggiore trombettista del jazz moderno, in un appassionato Easy Living uno dei brani più belli della sua breve vita artistica. E' tratto dal suo celebre "Memorial Album" (1953). Gli interpreti: Clifford Brown (tp), Gigi Gryce (as, fl), Charlie Rouse (ts), John Lewis (p), Percy Heath (b), Art Blakey (ds). Reg.: Audio-Video Studios, NY.

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INVIDIA. Da "motore del mondo" e del mercato a vizio nazionale italiano

Perfino in un club nudista una ragazza giovane, bella e formosa desta l'invidia d'una signora agée e meno dotata. Il linguaggio del corpo è eloquente. (Nella foto il bordo piscina d'un club americano dei primi anni Sessanta).
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L’anno scorso alcuni fantasiosi "creatori di eventi" le dedicarono addirittura un festival. Dove? E dove, se non in Italia? Parliamo dell’invidia, il vizio nazionale italiano. Quello che, secondo gli stereotipi, nel Nord dei biondi alti e con gli occhi azzurri dovrebbe favorire la sana concorrenza del mercato libero (figuriamoci), e che invece al Sud blocca ogni iniziativa.
Provatevi, al di sotto del fiume Garigliano, a intraprendere qualsiasi attività: avrete tutti contro, dalle solite malelingue che insinueranno criminosi retroscena, ai soliti nemici che si risveglieranno per "sputtanarvi", termine tipicamente meridionale che vuol dire screditarvi agli occhi della comunità (attività in cui ieri i meridionali, oggi tutti gli Italiani eccellono), infine ai soliti amici e parenti che ti diranno "Ma chi te lo fa fare? Senti a me, non farne nulla: ti faresti dei nemici…" Parenti serpenti e amici all’italiana.
All’italiana? Be’, veramente sembra che il viziaccio, in forma fisiologica comune a tutti gli uomini, sia presente in forma patologica, cioè diffusa e quindi con effetti sociali, nel Dna della Magna Grecia, come residuo di una vera e propria grecità, cioè delle polemiche intestine, del campanilismo sfrenato e degli odi fratricidi che distrussero da soli la democrazie e la civiltà della Grecia antica, a leggere gli stessi storici greci, da Polibio in giù.
Un vizio femminile, si dice. Povere donne, incolpate sempre di tutti i vizi dell’Uomo in genere. L’unica loro colpa è invece quella di essere troppo sincere, eehm.. volevo dire istintive, cioè incapaci di nascondere i sentimenti, anche i peggiori, come invece sappiamo fare egregiamente noi maschi "razionali" (ecco a che serve la Ragione…). Basta vedere la godibilissima foto scattata negli anni 50 in un club nudista americano, che ho opportunamente virato in verdino, il presunto colore dell’invidia. La signora brutta e di mezz’età tradisce in modo patetico allontanandosi quanto più può col busto in una posa evidente anche a chi non sappia che cos’è la psicologia del corpo e dei gesti, la sua lontananza, diffidenza, avversione, ma sì, la sua invidia bella e buona, per quella ragazzona piena di gioventù, ottimismo, ingenuità e di curve. Tante curve. Che lei, invece, non deve aver avuto neanche da giovane, se mai è stata giovane. Insomma, tra donne, perfino al club nudista, dove il nudismo dovrebbe affratellare e appianare differenze sociali e individuali, e contrasti, le invidie permangono. E, attenzione signore donne, prima di incolparmi di anti-femminismo: lo stesso forse si sarebbe potuto vedere tra un uomo anziano particolarmente debilitato e meschino e un ragazzo giovane e sportivo, se solo un fotografo malevolo si fosse appostato nelle vicinanze con i medesimi intenti con cui si è appostato davanti alle due donne così diverse e contrastanti tra loro. Ma oggi sorrideremmo di meno nel guardare la foto: noi maschi, anche i più squallidi, sappiamo fingere meglio, anche nelle foto.
Invidia, insomma, come malattia, terribile "tarlo dell’anima", intitola un breve commento Massimo Barberi nel prossimo numero di settembre della rivista "Mente & Cervello" (ed. Le Scienze) tutto dedicato all’oscura faccenda.
"È il più ripugnante dei peccati, un'emozione inconfessabile che rode dall'interno", scrive Barberi. "L'invidia è come una ruggine dell'anima che condanna alla solitudine. Nei dipinti del Rinascimento è rappresentata così: una donna vecchia, misera, zoppa e gobba, che si strappa serpenti velenosi dai capelli per scagliarli contro gli altri. È l'invidia, un sentimento comune e miserevole, talmente presente a tutte le latitudini e longitudini che più o meno ogni religione l'ha stigmatizzata. Se per la religione cattolica è uno dei sette vizi capitali, per i buddisti è uno dei fattori mentali che possono portare all'odio. Ed è un sentimento che secondo gli islamici appartiene soltanto a chi non professa la loro fede.
"Spesso confusa con la gelosia, con l'avidità oppure con il rancore, l'invidia è invece un'emozione ben precisa e studiata da varie angolazioni. Per gli psicologi, per esempio, nasce essenzialmente da un confronto di poteri, tra noi e gli altri, ed è un'emozione sgradevole anche per chi la prova. I sociologi, che per decenni l'hanno considerata poco meritevole di attenzioni, oggi la reputano uno strumento di mediazione sociale".
Bah, un po’ banale, no? Si poteva scrivere di meglio. Già, perché l’ha scritto lui questo pezzullo sull’invidia? Non sarei stato migliore io?

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21 agosto 2009

JAZZ. Quel grande sassofono italiano. Dietro c’era non un re, ma un signore

La sua orchestra jazz accanto all'altare, il suo sassofono tenore, l’amico d’una vita, ormai silenzioso per sempre, su una sedia vuota. Questo è stato l'addio, ieri mattina, in San Secondo ad Asti, tributato al grande jazzista Gianni Basso, protagonista per oltre 50 anni di grandi concerti in Italia e all'estero. Non un "re", il mondo del jazz non li conosce, ma qualcosa di più: un vero signore del jazz italiano. Il jazzista italiano con la più lunga carriera, quello che più aveva fatto conoscere in modo continuativo e dignitoso il jazz italiano ai musicisti europei e americani. Grande musicista, grande direttore di orchestre e suscitatore di eventi, grande e generoso scopritore di talenti, grande uomo, dotato come i veri grandi di umanità, psicologia e semplicità, al contrario delle tante primedonne isteriche del jazz italiano. Era deceduto lunedi scorso in ospedale a 78 anni.
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Aveva qualcosa di Charlie Parker e qualcosa di Coleman Hawkins. L’irruenza crescente, il fraseggio ricco e barocco che scolpiva le note a tutto tondo, perfino la sonorità calda del grande tenorsassofonista dello swing e stilista indiscusso del suo strumento, la scoprivi in lui a poco a poco con sorpresa. Perché Gianni Basso, grande sassofonista, improvvisatore, direttore d’orchestra, arrangiatore, autore, suscitatore di eventi e generoso scopritore di talenti e, da giovane, eterno giovane, partner di grandi musicisti di tutto il mondo, era imbevuto di bebop.
Non fu "il re del jazz" in Italia, come vorrebbero i cronisti di spettacoli, che non si intendono di jazz ma devono pur inventarsi un titolo. Nel jazz, si sa, dopo morti sono tutti "re" per i giornali italiani. No, era troppo signore, troppo umano, troppo perbene e cordiale per volerlo e per esserlo.
Fu certamente tra i maggiori jazzisti italiani di tutti i tempi, e comunque quello con la carriera continuativa più lunga, a cominciare dal 1950, e in gran parte passata attraverso la televisione, allora sicuro approdo per una bella grande orchestra come la sua (il quintetto, ma poi anche sestetto e ottetto Basso-Valdambrini).
Gianni Basso è scomparso il 17 scorso a 78 anni, e come accade sempre nel jazz, musica giovane, di giovani e per i giovani, aveva suonato fino all’ultimo. Da giovane. E un sassofono non è un pianoforte, che può suonare con quattro dita anche il centenario Eubie Black.
Aveva scelto nel dopoguerra il bebop di Parker, Gillespie, Powell e Monk, la rivoluzione del jazz moderno, che aveva cambiato in profondità, reso più veloce e sintetico, finalmente davvero "sincopato", il jazz, e non l’aveva più abbandonata.
Perché avrebbe dovuto? Proprio come si addice chi è sulla mainstream, la strada principale della musica moderna, e non è spinto a curiosare tra i vicoli, non tentò mai le sterili avanguardie alla moda, sempre ripiegata su se stessa. Anche quando questa gli avrebbe portato più dischi per la sua discografia personale (dischi prodotti, non certo venduti) e più notorietà tra i giovani, quelli per intenderci per cui "il jazz comincia dall’ultimo Coltrane". Gli era stato rimproverato di aver fatto musica "televisiva", cioè consolatoria, di piacere anche al rag.Rossi e alla signora del piano di sopra, perfino di lavorare "per la borghesia". Toh, le stesse accuse che si potevano fare a Vivaldi, Bach e Mozart. E figuriamoci se lui, così modesto, poteva paragonarsi a quei giganti.
Certo, lo snobismo intellettualistico di chi disprezza il pubblico e sputa sul piatto in cui mangia non lo sfiorò mai. Era umile, come deve essere un artista, di fronte al pubblico per il quale suona. E infatti come tutti gli artisti veri sapeva comunicare. Del resto, la storia ci ha insegnato che l’arte, prima o poi – più prima che poi – viene capita dal pubblico. Una musica "per se stessi", incomprensibile agli altri, hanno spiegato gli studiosi di estetica, non è arte, anzi è una contraddizione. L’arte, oltre che interpretazione della realtà, della Natura, è comunicazione, messaggio.
No, per Gianni Basso, troppo dotato di buon senso, cioè intelligente, per ignorarlo, il jazz non comincia certo da Coltrane o da Ornette Coleman, ma dal blues e dagli antichi tempi di New Orleans e Chicago, e un jazzista bravo e completo deve aver assorbito e digerito tutti gli stili, tutti i musicisti, tutte le epoche. Perciò il jazz è completo, perciò è difficile. Ma sapeva anche che ormai il jazz ha il linguaggio formale del bebop. E’ il bebop. Esiste un "progresso" anche nell’arte. Però Basso, anche con la scelta delle ance giuste, gli dava quel timbro unico, quella sonorità classica, quel fraseggio rotondo e impetuoso che piacevano a tutti, perfino a certi inguaribili tradizionalisti.
Aveva suonato con tutti i grandi del jazz europeo e mondiale, il suo sassofono era molto richiesto anche perché era stato il primo di impronta europea (gli era stato molto utile formarsi da adolescente in Belgio, dove risiedeva la famiglia, nell’orchestra di Raoul Falsan.
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Su Gianni Basso si può leggere la
biografia di Wikipedia, oltre alle cronache in occasione della sua scomparsa, sul Corriere della Sera e sulla Stampa.
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JAZZ - YouTube ha pochi filmati su Gianni Basso, e non dei migliori. Tuttavia, esiste una bella registrazione sonora corredata da diapositive, tratta dallo storico festival di Umbria Jazz, quando UJ faceva ancora buon jazz. Siamo a Orvieto il 27 luglio 1974 (Basso ha 43 anni) nei Giardini degli Albornoz. Il quartetto di Gianni Basso (sax tenore) e Dino Piana (trombone).suona in uno stupendo
Lover Man,.una trascrizione quasi puntuale che fa pansare a come sarebbe stato Parker al tenore e con un timbro più caldo. Nell’87 (a 56 anni) Gianni Basso è in una registrazione RAI a capo di una big band giovane in Quo Vadis Samba. Infine, nel 2006, ormai vecchio (75 anni) ma non per il jazz, ecco in una registrazione di fortuna, come mediocre acustica, Gianni Basso e Mario Rusca (pianoforte) al jazzclub dell’Hotel Visconti di Milano. Si noti il continuo dialogo di Basso col batterista Faraò.

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19 agosto 2009

SCIENZA. L'appello su Nature: "L’uomo non è un ratto di 70 chili"

Studiando sulle riviste scientifiche di biologia, a proposito di alimenti e dei loro principi attivi, mi ero da anni scontrato con le caratteristiche della sperimentazione sugli animali di laboratorio, che non li fanno assomigliare minimamente all’Uomo.
Innanzitutto, sono razze allevate appositamente per reagire rapidamente alle varie malattie da osservare o curare sperimentalmente. In secondo luogo hanno una vita breve o brevissima, se confrontati agli Umani. Terzo, per la loro natura, ma anche per la rapidità necessaria agli studi, si trovano a dover reagire, come diceva il grande biochimico Bruce Ames, a sostanze somministrate in modo acuto (una volta sola, o al massimo poche volte) in grande quantità, diversamente dall’Uomo, in cui la lunga vita e le caratteristiche dell’alimentazione variata vogliono semmai l’inverso: somministrazioni croniche di piccolissime quantità di principi attivi. Due situazioni incomparabili tra loro: ecco perché la sperimentazione animale è spesso deludente e poco significativa, anche nel caso dei nuovi farmaci.
Insomma, è facile vedere che cosa accade a un ratto italiano se gli diamo in una volta sola 10 grammi di metil-eugenolo senza fargli assumere altro: ma è impossibile sapere che cosa accadrebbe, per esempio, ad un uomo italiano, che assumesse ogni giorno per tutta la vita 1 microgrammo di metil-eugenolo aggiungendo qualche foglia di basilico a spaghetti, insalata caprese e pizza, tra i tanti alimenti che mangia. In tal caso neanche le statistiche dell’epidemiologia ci direbbero qualcosa di certo. Tant’è vero che non sembra che chi usa molto basilico abbia un maggior rischio di cancro di chi non lo usa mai.
E’ vero, noi non siamo "ratti di 70 chili", dice giustamente Hans Thomas Hartung, lo scienziato che ha avuto il coraggio necessario e, diciamolo, anche l’ospitalità – negata ad altri – per
pubblicare sulla notissima rivista scientifica generalista Nature un invito ad abbandonare i test e la pratica della vivisezione sugli animali, per utilizzare finalmente esperimenti moderni, scientifici, affidabili, cioè immediatamente applicabili agli Umani. Riprendo il testo da Agire-ora Network.
NICO VALERIO
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TOSSICOLOGIA PER IL VENTUNESIMO SECOLO
Nel numero di luglio di Nature appare un interessante articolo del dott. Thomas Hartung, ex direttore del centro europeo per la convalida dei metodi [sperimentali] alternativi, ECVAM. L'articolo è intitolato "Tossicologia per il ventunesimo secolo" e vogliamo qui riassumerne i punti principali, per rendere nota la visione del dott. Hartung: un nuovo approccio ai test di tossicità è necessario, se vogliamo che questi test servano finalmente a qualcosa e non siano mera burocrazia. In questa visione, i test su animali - inaffidabili, costosi, non etici, e di durata troppo lunga - devono secondo Hartung essere messi da parte, e una nuova strategia integrata, che faccia uso delle più recenti tecniche di colture cellulari e della bio-informatica, deve essere sviluppata e diffusa, e resa obbligatoria a livello legislativo mondiale.

Spiega Hartung che sono passati ben 80 anni da quanto è stato messo in piedi il primo sistema di classificazione delle sostanze nocive, ma dopo qualche decennio di sviluppo di regole e test standardizzati (test su animali, quindi inefficaci) questo sistema "si è addormentato", secondo le testuali parole di Hartung, e quindi tutte le metodologie scientifche più avanzate non sono mai state incorporate in esso. Hartung dà la colpa alle "linee guida internazionali" che con la loro elefantiaca burocrazia non permettono un aggiornamento veloce e facile. Così i protocolli "scientifici" del settore sono fermi a oltre 40 anni fa, cosa che non si verifica in nessun altro campo della scienza.
Secondo Hartung ci sono alcuni problemi principali. E' chiaro che quando si devono fare dei test si utilizza un modello, perché la situazione ideale per testare una nuova sostanza chimica e determinare la sua pericolosità per le persone sarebbe avere un numero elevato di esseri umani e provare su di loro, in condizioni realistiche, la sostanza; ma questo è sia non accettabile eticamente sia impossibile da mettere in atto nella pratica. Quindi serve per forza utilizzare un modello semplificato. Il problema è utilizzare un modello abbastanza efficace, non metodi vecchi di 40 anni di efficacia pari al tirare una moneta, solo per poter dire da un punto di vista burocratico che si sta facendo "qualcosa" per salvaguardare la salute umana contro i rischi posti da sostanze chimiche sconosciute.
Il primo problema che Hartung evidenzia degli attuali test standard è il fatto che i test su animali non sono affidabili. "Non siamo ratti di 70 kg", dice Hartung, assorbiamo le sostanze in modo diverso; le metabolizziamo in modo diverso; viviamo più a lungo (e quindi possiamo sviluppare certe malattie che altrimenti non si svilupperebbero, e possiamo sviluppare adattamenti evolutivi per difendercene); e siamo esposti a una moltitudine di fattori ambientali. Tuttavia, esistono ben pochi studi che misurano l'accuratezza dei "modelli animali" così largamente usati, puntualizza Hartung.
Tutti gli studi di questo tipo che sono stati fatti evidenziano comunque che la correlazione tra i risultati su specie diverse è molto simile a quella del "tirare una moneta", cioè vicina al 50%. Vale a dire: fare un test su animali, o tirare una moneta per stabilire se una sostanza chimica è pericolosa o meno, è più o meno la stessa cosa... infatti per esempio confrontando la dose di una sostanza chimica che risulta letale per la metà dei ratti sotto test (LD50) e la concentrazione letale della stessa sostanza nel sangue degli esseri umani si è visto un coefficiente di correlazione pari a 0,56, davvero poco significativo. Allo steso modo, in un altro studio il 40% delle sostanze chimiche che risultavano irritanti per la pelle dei conigli non erano irritanti sulla pelle umana.
In generale, confrontando la correlazione tra specie diverse di animali (topi, ratti e conigli, i più usati in laboratorio) è stato visto che c'è una concordanza di risultati solo nel 53-60% dei casi. Risultati simili sono stati ottenuti per i farmaci: in uno studio, solo il 43% degli effetti tossici per gli umani erano stati predetti dai test sui roditori, il 63% quando venivano inclusi anche animali non roditori. Come detto sopra, non è molto diverso dal tirare una moneta...
Per migliorare il risultato, i test sono spesso eseguiti su una specie roditrice e una non roditrice. Ma come visto sopra, il risultato è comunque molto scarso come affidabilità. Inoltre, questo pone il problema che aumentano i "falsi positivi", come fa notare Hartung, cioè il numero di casi in cui una sostanza che non è dannosa per l'uomo viene invece classificata come tale. Questo diventa anche un grosso problema quando questi risultati sono usati per valutare la bontà di un metodo alternativo senza uso di animali. I risultati di questo metodo vengono infatti confrontati con quelli ottenuti sugli animali, che sono peroò di qualità pessima. Così i metodi alternativi migliori NON passano il test di convalida, perchè confrontati con risultati sbagliati! Tutto questo è illogico, ma è quello che è accaduto negli ultimi decenni. C'è ora la speranza che invece i nuovi metodi alternativi vengano confrontati con i risultati noti sugli umani, in modo da selezionare e convalidare test più moderni e utili.
Il secondo problema illustrato da Hartung riguarda il modo in cui vengono fatti gli studi su animali. I test di tossicità vengono infatti eseguiti alla dose massima tollerata di una certa sostanza chimica. Questa può essere fino a 1000 volte più alta di quella effettivamente applicata agli esseri umani (intesa come milligrammi per kg di peso) e quindi questo "porta a molti falsi positivi e diminuisce ancora di più la correlazione tra i risultati sui modelli animali e sugli esseri umani".
Il terzo problema riguarda la quantità di sostanze chimiche che hanno effettivamente proprietà pericolose. Il punto è, secondo Hartung, che la tossicologia studia situazioni rare di pericolo attraverso modelli imperfetti, e questo causa risultati che non sono utili e quindi è estremamente importante migliorarare l'affidabilità dei test.
Spiega Hartung che attualmente il modo tipico di procedere è fare i test su animali e dopo, in alcuni casi, usare metodi basati su colture cellulari o metodi informatici per definire il modo di agire delle tossine e per interpretare e bilanciare meglio i risultati. Ma "la migliore opportunità per migliorare la tossicologia regolatoria sta nell'applicazione di strategie che prima di tutto facciano uso di tutte le informazioni già esistenti su una sostanza e sulle sostanze strutturalmente simili e in seguito raccogliere informazioni nuove, sempre con metodi che non fanno uso di animali", in modo da eliminare quanto più possibile il ricorso ai test su animali.
Il settore farmaceutico è quello che sta aprendo la strada a un cambiamento di strategia anche nel settore dei test di tossicità. Oggi la metà dei farmaci prodotti è costituita da proteine e anticorpi umani (noti col nome di "biologici") e in questo la tossicologia classica è per lo più inutilizzabile, perché per queste proteine è ancora più vero che gli effetti sono specie-specifici (cioè molto diversi tra una specie e un'altra) e quando introdotte su animali generano la produzione di anticorpi che invece nel corpo umano non vengono generati, rendendo quindi l'inutilità dei test su animali ancora più elevata e palese.
La necessità di testare questi "biologici" ha portato allo sviluppo di modelli basati su cellule umane, e quindi anche altre aree della tossicologia trarranno giovamento da questa evoluzione.
La soluzione proposta da Hartung è una strategia in tre passi.
Il primo passo è quello di esaminare in modo obiettivo gli strumenti attualmente in uso e valutarne la loro efficacia reale.
Il secondo passo, nel medio termine, è quello di integrare i vari approcci in una strategia di test.
Il terzo passo, di cui c'è bisogno con urgenza, è quello di sviluppare nuovi metodi e un nuovo sistema di test.
Le basi per questo nuovo sistema sono emerse negli ultimi 20 anni: "Gli avanzamenti nelle tecniche di colture cellulari hanno reso possibile studiare i fenomeni biologici in vitro, cosa che non era possibile quando gli sperimenti di tossicologia vennero per la prima volta progettati", scrive Hartung. Aggiunge anche che i primi esperimenti sulle colture cellulari erano relativamente semplici ma "hanno avuto una rapida evoluzione, e molti ricercatori usano oggi colture tridimensionali ('organotipiche') che assomigliano ad organi umani nella struttura e nella funzionalitaà".
Hartung propone anche di usare le tecnologie più moderne sviluppate negli ultimi anni: gli approcci bioinformatici e biotecnologici, che forniscono un enorme numero di informazioni; la genomica e la proteomica; le tecnologie per immagini; e le piattaforme di test robotizzate. "Assieme, queste tecnologie possono non solo permettere ai ricercatori di trovare nuovi marker biologici di effetti tossici specifici ma permettono la deduzione di pattern caratteristici di certi effetti tossici".
Hartung conclude dicendo che è importante far comprendere a chi si occupa di definire le regolamentazioni nel campo della tossicologia le potenzialità di un sistema completamente nuovo, in modo che si rinunci al sistema vecchio e lo si sostituisca con quello nuovo, non si usino le nuove tencologie come ulteriori possibilità per aggiungere informazioni, ma si butti via la vecchia modalità di test.
Noi concludiamo dicendo che occorre rendersi conto che rinunciare ai test su animali non significa, come questo articolo scritto da uno dei maggiori esperti europei di tossicologia fa ben capire, rinunciare alla scienza e al progresso: al contrario, proprio per la scienza e per il progresso questi metodi vecchi di decenni vanno abbandonati a favore di metodi più moderni, scientifici, efficaci, affidabili e, sopra ogni cosa, etici.
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Fonte: Thomas Hartung, "Toxicology for the twenty-first century", Nature 460, 208-212 (9 July 2009) (doi:10.1038/460208a; Published online 8 July 2009)

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10 agosto 2009

MUTILAZIONI genitali femminili: una vergogna per l’Islam, l’Africa e l’Asia.

MUTILAZIONI FEMMINILI
CLITORIDECTOMIA E INFIBULAZIONE

LA DONNA? NON DEVE GODERE

Cento milioni di donne islamiche – 23 mila nella sola Italia – soffrono per tutta la vita a causa del taglio della clitoride e della cucitura della vulva imposti sadicamente dalla gelosia maschile

Ilona Rovice (anagr. di Nico Valerio), Teknos, 1996

Mutilazioni-genitali-femminili Le vecchie dei villaggi pensano a tutto: le schegge di selce tagliente, i pezzi di vetro, le spine. Intorno a piazza Vittorio, a Roma, cosí come nei quartieri islamici di Milano, si usano anche il rasoio e il filo di seta. Le bambine attendono tremando e piangendo, ma neanche immaginano il dolore che proveranno tra poco. In Africa, nella fascia subsahariana, dal Mali al Sudan al Corno d'Africa, in Egitto e nei Paesi islamici dell'Asia fino alla Birmania, prima della pubertà quasi tutte le donne subiscono il loro primo martirio. In Somalia, secondo il rapporto Hosken, sono il 100 per cento delle donne. A gambe divaricate, inutilmente confortate da madri e sorelle, dopo aver bevuto pozioni di erbe ritenute antidolorifiche, subiscono in pochi, lunghissimi secondi il taglio parziale o totale della clitoride, talvolta anche quello delle grandi labbra.

Tra i somali e altri popoli (Galla, Afar) alla clitoridectomia si aggiunge la infibulazione, cioè la quasi totale cucitura per mezzo di acuminate spine vegetali delle piccole labbra, a eccezione di un forellino attraverso cui a malapena passa l'urina. Oggi, con l'emigrazione, questa scena raccapricciante può svolgersi normalmente anche in Italia, in Francia, in Inghilterra, nel cuore stesso dell'Europa del diritto.

Qual è lo scopo di questa mutilazione genitale che sa di Medioevo e di costumi barbarici? I moralisti depositari della tradizione islamica vogliono assicurarsi da una parte che la donna viva nella castità più assoluta fino al matrimonio ‑ tanto che il marito sia costretto a improvvisarsi macellaio aprendosi la strada con un affilatissimo coltello la prima notte di nozze ‑ e dall'altra che non provi troppo piacere nell'atto sessuale e non si abbandoni a presunte tendenze "viziose" e libidinose".

“Il presupposto ‑ denuncia il sessuologo e psicologo Luigi De Marchi è sempre quello sessuofobico, il terrore che la donna possa placare quella "fame insaziabile" di sesso che tanto preoccupa l'uomo tradizionale islamico. Insomma, dietro c'è una profonda insicurezza, un curioso senso di inferiorità sessuale del maschio represso dalla cultura maschilista". Nient'altro che la banale gelosia, allora? E la tanto strombazzata religione? Macché. Fa paura la potenziale disponibilità sessuale della donna" prosegue De Marchi. Il timore di perdere il dominio sessuale spinge l'uomo africano e islamico a pretendere ancor oggi una forma di mutilazione che è l'emblema della crudele natura misogina e maschilista di una vasta parte della cultura islamica

E il fenomeno è davvero cosí diffuso? Secondo il club inglese Foreward, che tutela le donne africane, sono 100 milioni le donne sessualmente mutilate in vario modo ‑ da un taglietto simbolico all'escissione totale ‑ come precisa Claudia Di Giorgio che si è occupata della materia per la televisione europea Euronews, di Lione. Di recente, in Gran Bretagna una richiesta di clitoridectomia è stata respinta dalle autorità sanitarie in base alla legge del 1985 contro le mutilazioni. Certo, la sorte delle bambine nere o islamiche immigrate è segnata. "Anzi, all'estero tali pratiche anacronistiche finiscono per funzionare da collante sociale, cioè rafforzano l'identità del gruppo", commenta la Di Giorgio.

Ma le conseguenze pratiche sono atroci. Basti considerare che in occasione di un banale parto, l'ostetrico è costretto ad aprire chirurgicamente la vulva infibulata.

Senza contare, poi, che il taglio della clitoride priva per tutta la vita la donna del piacere ricavato dallo sfregamento dell'organo sessuale maschile con il piccolo organo erettile femminile. Un piacere, quello clitorideo, ritenuto oggi il più importante per la donna, secondo i sessuologi.

Marica Livio, una psicologa lecchese superesperta in materia sull'infibulazione ha scritto una tesi ‑ riferisce che dal congresso nazionale tenuto lo scorso anno a Padova, a cura di Pia Grassivaro Gallo e collaboratori dell'università, è emerso che su 300 ginecologi ben 150 hanno avuto a che fare con casi di mutilazioni e infibulazioni. Su due bambine sono stati trovati segni evidenti di operazioni recenti; in una addirittura era ancora conficcato un bastoncino per il drenaggio.

I medici piú vicini alla comunità fanno quello che possono per limitare i danni di interventi clandestini e sommari. Nella sola Roma, ad esempio, sono attivi i dottori Giovanni Assam e Maria Grazia Scalise. Ma ogni tanto scoprono anche la "mano dell'artista", segno di un intervento clandestino di un collega poco in linea con la deontologia. Il peggio accade dopo le operazioni casalinghe riporta la Livio: infezioni che durano anni, cisti, ascessi, cancrene complicazioni croniche di ogni tipo (mestruazioni e minzioni difficoltose, infezioni renali).

Sui danni della "circoncisione femminile" ha riferito Hami Rushwan (World Health, maggio 1990). Quanti sono i casi in Europa? In Italia 23mila donne a rischio, più o meno come in Francia e in Inghilterra. Ma in Francia sono morte di recente alcune bambine, a causa di queste pratiche. E negli Usa ferve il dibattito culturale e sanitario su un argomento ‑ è il caso di dirlo ‑ cos spinoso: intervenire o no?

Per molti islamici fondamentalisti il tema è tabù, la crudele pratica è "patrimonio culturale": Europa e America rispettino i costumi altrui. Già, ma come può l'Occidente liberale e laico permettere ‑ addirittura sul proprio territorio che siano compiuti atti in contrasto con il diritto all'integrità fisica e psichica dell'uomo, cioè criminali? "E’ evidente l'incompatibilità della circoncisione femminile con i più elementari diritti umani", sostiene De Marchi. E' grottesco che governi che consentono tali atti siedano nella Commissione per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite e che l'Occidente tolleri questa barbarie, forse perché la considera frutto di una tradizione soltanto religiosa".

E' vero che qualche Imam o saggio islamico ha precisato che nulla del genere è previsto dal Corano, così come è vero che la pratica è in auge anche in qualche tribù cristiana copta dell'Etiopia. "Certo ‑ controbatte De Marchi ‑ neanche l'inquisizione cattolica era stata prevista dal Vangelo, e dopotutto l'hanno imitata anche i protestanti. Ma è la realtà sociale che conta, Libro o non Libro. Del resto, anche l'Occidente ha delle colpe.

A eccezione forse del secolo dell'Illuminismo, non ha mai avuto il coraggio di farsi promotore di una rivoluzione planetaria in grado, se fosse il caso, di scontrarsi anche con le tradizioni oscurantiste, comprese quelle religiose. D'accordo con la ragion di Stato, ma è vergognoso che almeno in via di principio non si prenda posizione e ci si inchini alle tradizioni locali che calpestano i più elementari diritti umani".

E, infine, una curiosità. "La clitoridectomia è all'origine della diffusione del consumo di hashish", rivela con il suo consueto humour De Marchi. Possibile? "Certo. I maschi arabi sono presi dal terrore di non soddisfare le loro femmine, che mutilate della clitoride arrivano con più difficoltà all'orgasmo. Così devono fare l'amore per ore, e per resistere devono imbottirsi della droga della Cannabis índica. E’ un fenomeno noto da tempo, confermato vent'anni fa dal capo della polizia egiziana. Proprio così: dal taglio della clitoride si arriva alla tossicodipendenza maschile nei Paesi musulmani".

JAZZ. Incisione rara di un jazz curiosamente “progressive” con alcuni musicisti dell’orchestra di Ellington, compreso il leader. “Oscalypso” è un brano scritto dal contrabbassista e violoncellista ellingtoniano  Oscar Pettiford in quartetto con Duke (New York, 13 settembre 1950). I Musicisti: Billy Strayhorn, celeste; Duke Ellington, p;  Oscar Pettiford, cello; Lloyd Trotman, b; Jo Jones, d.