26 giugno 2011

ETIMOLOGIE. Quello che non solo ti dà una fregatura, ma ti sodomizza pure.

Uomo di parole che camminaLe parole camminano. Se la storia del Mondo fosse solo la storia delle parole, staremmo freschi! I posteri non ci capirebbero niente. Un garbuglio inestricabile: discendenze assurde, analogie a sproposito, contraddizioni, assonanze, stereotipi, ambiguità, tautologie, legami senza capo né coda. Come il “gioco del telefono” dei bambini. Perché le parole più comuni non sono state inventate da razionali linguisti, ma create a poco a poco dal popolo ignorante e analfabeta, che non le leggeva, ma le sentiva pronunciare malamente e le ripeteva a modo suo come più o meno le aveva capite, spesso stravolgendole con gli accostamenti più strani, coloriti, improbabili. Quando non ci aggiungeva la malizia.
      La casseruola (pentola “più profonda del tegame, con lungo manico”, Gabrielli) fuori di Toscana era detta cazzarola (Frida, Tagliatelle alla bolognese, “l’ABC della cucina”, in La Cucina Italiana, 1937) da donne timorate che mai avrebbero detto “cazzo”, tanto che oggi è rimasta in Grecia come termine comune importato dalla marineria italiana. E le donne contadine o popolane cattoliche, ancor oggi esclamano ”cazzarola!” per non dire la “parolaccia” cazzo! A proposito, da dove viene questa parola, spesso nient'affatto volgare e dai molteplici significati? Ed è vero che la usarono Shakespeare, Machiavelli e perfino Leopardi? E, per par condicio, che cosa c'entra il nome dell'organo femminile, fica, col dolcissimo frutto di Ficus carica? Anche su questo si sono esercitati gli uomini di cultura.
      E la torta? Non esiste al mondo nulla di meno torto, più piano e più liscio. E invece, pensate un po’, deriva da “pasta torta, ravvolta”. Grazie tante: prima di essere spianata è stata impastata, cioè torta e ritorta! E questa assurda etimologia viene dal sec. XII (Gabrielli). A proposito di pasta, quella da cuocere è solida e dura, altro che pasta. Ma deriva pur sempre da una pasta fluida di semola e acqua calda... Mentre il dolce del bar, che davvero è ritorto, si chiama cornetto o croissant, da luna crescente (lune croissante), essendo in forma di mezzaluna turca e in ricordo della pasticceria ottomana dopo la battaglia di Vienna in cui i Turchi furono (per fortuna) sconfitti. “Crescente”? Ma come si fa a distinguere un cornetto… crescente da uno calante (décroissant)? E allora, perché il formaggio crescenza si chiama così? Oddio, che mal di testa.
      Ad ogni modo, basta dargli forma ovale piena e allungata e a Roma diventa maritozzo, cioè grosso marito. Forse perché, come il libum dell’antica Roma, era un piccolo dolce tradizionale che i fidanzati regalavano alle fidanzate prima del matrimonio, e queste ultime amorevolmente li chiamavano maritozzi, cioè quasi mariti. E sia il nome che la forma allungata originaria fanno pensare a qualcosa che “fa da marito”, sia pure in modo rozzo e inadeguato. Che alle donne dovevano ricordare i godemiché  (gode Michel=godi Michele) falli artificiali di pelle molto diffusi per secoli fino al Novecento, fatti per gli amori solitari di suore, vergini, zitelle attempate, vedove e donne carcerate. E allora sì, nome indovinatissimo: maritozzo! Anche il Belli gioca con questo doppio senso (Er pane casareccio, 1831) testimoniando che ai suoi tempi era un dolce quaresimale duro “di pasta scrocchiarella e tosta”. Ancor oggi, pur essendosi ammorbidita la pasta, con maritozzo qualche donna romana, parlando ironicamente con le amiche, intende un marito, un marito grande, grosso e un po’ stupido da accalappiare. Meglio se “una pasta d’uomo”. L’ideale, per un certo tipo di femmina.
      A Roma, poi, il vizio popolare di peggiorare e ridicolizzare col doppio senso ogni nome era una vera e propria rivalsa sociale, una sorta di vendetta dei poveri contro i ricchi e potenti, ma anche degli ignoranti contro i colti. Per dirne una, la traversa di via Giulia dove abitava il nobile casato dei Cèvoli, a forza di dirla e ridirla, divenne un toponimo dispregiativo: “vicolo der Cefalo”. Che è il pesce che tra i romani ha la peggior reputazione. D’accordo, quei marchesi non saranno stati il massimo della simpatia, fatto sta che “vicolo del Cefalo” è rimasto. Poveri linguisti futuri! Ditemi voi come potranno spiegarsi la presenza di “cefali” in pieno centro di Roma.
      Senza contare le tante parole che derivano pari pari da altre lingue, malamente pronunciate, come bistecca (dall’inglese beef steak, fetta di bue), stoccafisso (dall’inglese stock fish, pesce immagazzinato), perfino boscimani (bush men, gli uomini dei cespugli) e il nostro “italianissimo” lupo mannaro (tardo lat. lupus hominarius, cioè lupo umanizzato; cfr. ingl. wolfman e it. colto licantropo dal gr. λυκάνθρωπος). Quando poi non ci sono, tutt’oggi, equivoci imperdonabili e sottoculturali: lo smoking, abito “per fumare”, preso in provincia per abito da sera, il tailleur che in francese vuol dire solo sarto, così come gli champignons, che in francese significano genericamente solo funghi, ma in Italia stanno, chissà perché, per i soli prataioli.
      Proprio per questo, la ricerca sull’origine e la ramificazione delle parole è entusiasmante. E non basta l’etimologia. Le sorprese sono ad ogni svolta. Chi conduce questo tipo d’indagine si sente sempre un poco Sherlock Holmes.
      E’ quello che càpita quando dobbiamo interpretare e tradurre nel linguaggio di oggi i termini più curiosi dei sonetti di G. G. Belli, nel blog Il Mondo del Belli a lui dedicato. Tutto bisogna mettere nel conto: l’italiano dell’Ottocento e quello di oggi, la lingua romanesca antica e moderna, gli usi antichi, addirittura medievali, le possibili origini latine, le inevitabili deformazioni analogiche, i significati che cambiano – andando di bocca in bocca – a seconda del contesto e dei termini derivati.
      Studiando per l’interpretazione e il commento di un sonetto del Belli (v. articolo sulla bellezza), ci siamo imbattuti nella parola “buggerone”, e nei tanti termini da cui deriva o che ne derivano: buggero, buggerare, buggeratura ecc. Ci hanno soccorso in questa ricerca, oltre alle prose di Zanazzo e ai sonetti del Belli, il dizionario etimologico Cortellazzo-Zolli, il Gabrielli, e per gli aspetti sessuali di buggerone e bardascia la ricerca di Giovanni Dall’Orto (“Le parole per dirlo”). Si è scoperto così un divertente intrico da sciogliere, ed è una piccola vittora ogni volta che si riesce a togliere una spira dal nodo.
      Tutti noi abbiamo, almeno una volta nella vita, preso una “buggeratura”. Ma ormai lo dicono solo le donne e i bambini, credendo che sia più pulito di fregatura. E invece, no: entrambi sono stati o sono termini sessuali molto pesanti. Infatti, mi aveva sempre insospettito la traduzione in gergo popolare romano di oggi del medesimo concetto: “Giorgio ha comperato un Suv, ma ha preso un’inculata”. Ma in tutt’Italia, anche nei salotti e alle interviste in tv, perfino i politici dicono che “il cittadino l’ha preso in quel posto”. Cioè ha fatto un pessimo affare, è rimasto ingannato, buggerato. Ebbene, si tratta del medesimo concetto. La storia della parola conferma questa coincidenza tra imbroglio e sessualità anale, attiva e passiva, come vedremo. 
      L’uso letterario, nel senso di ingannare, è documentato almeno dal 700-800 in poi. Vincenzo Monti ancora nel 1778 scrive: …“mandarmi a far buggiarare in buon lombardo”, mentre Giuseppe Giusti nel 1848 usa la grafia buggerare. Buggeratura è registrato come raggiro, imbroglio, da Devoto-Oli 1967, mentre il Fanfani nel 1863 usava la forma buggerata. Ma gli usi nel senso sessuale sono più antichi, si veda anche buggeressa (Rustico di Filippo, XIII sec, e buggioressa a Lucca ancora nel XIX sec. (Cortellazzo-Zolli).
Il punto di partenza è il latino tardo bugherum (bulgherus), bulgaro, che in seguito all’eresia patarina dei Bulgari in un testo del 1201 diventa anche sodomita. Epiteti offensivi subìti anche da altri eretici, come i Catari (?) come il gazaro in Bonvesin de la Riva e il veneziano gazarar, parallelo di buzarar, cioè buggerare (Cortellazzo-Zolli).
      E’ dalla storia della Chiesa e dal razzismo dei popoli antichi che parte l’avventura. Com’è, come non è, i poveri bulgari, probabilmente in quanto patria della setta eretica dei Catari o Albigesi, dovevano avere in tutta Europa, fin dal Medioevo, una brutta fama non solo di traditori e imbroglioni, ma anche di sodomiti (omosessuali attivi e passivi). Naturalmente questa era l’accusa, certamente campata in aria, propalata dalla Chiesa di Roma nel XIII secolo contro una setta cristiana dissidente. E con quale faccia tosta! Proprio i preti pedofili, da sempre dominati dal vizio della violenza sessuale verso i bambini, si mettevano ad infangare gli eretici. Senti chi parla: potevano mai i Catari essere peggio dei preti di Roma che li accusavano?
      Ma abbiamo visto citata una buggeressa. Controparte femminile della sodomia del buggerone maschio? Sembra di sì. Secondo il Dall’Orto, “è possibile che tale accusa alludesse in origine all'uso di pratiche anticoncezionali nel coito eterosessuale (i Càtari ritenevano che tutto il mondo sensibile fosse opera del Male, e quindi procreare fosse "cattivo"), perché buggioressa e buggeressa ("donna che si lascia sodomizzare"), sono attestati nella nostra lingua almeno una settantina d'anni prima di buggerone ("uomo che sodomizza").
Anche in Italia ci fu a lungo identificazione fra "eretico" e "sodomita", secondo i versi del poeta Cola di messer Alessandro, di Perugia (tra Duecento e Trecento), che accusa gli abitanti di Spoleto di sodomia abituale e di eresia patarina:

Amico, sappie l'uso de Spolìte (...)
femmine commune [prostitute] ne so' sbandite (...)
son tutte [tutti] patarine, al ver parlare,
e 'nnaturate sodome condìte [sodomiti incalliti].
 

(in M. Marti, 1959)

Stereotipo per stereotipo, questi vizi “orientali”, però, guarda caso, coincidono con le dicerie comuni a Venezia, regina del Levante, sui popoli “levantini”. E il Levante, non si sa dove finisce, ma certo comincia subito ad est di Trieste (o di Bari), e comprende perciò jugoslavi, macedoni, croati, sloveni, montenegrini, albanesi, greci, bulgari, romeni, zingari, turchi, arabi. Tutti luoghi in cui, secondo una vulgata dura a morire, vedere rispettato il proprio contratto o, a scelta, il proprio didietro, è statisticamente arduo. E la capitale, anzi l’università dell’intrigo, doveva essere Bagdad: vedi gli inganni geniali delle Mille e una Notte. Napoli, al confronto è estremo Nord!
      Insomma, “bulgari”, in quanto davano fregature, qualcuno direbbe anche infinocchiavano. Ma fregare è anche avere un rapporto sessuale. E infatti quegli omaccioni avevano anche il viziaccio di sodomizzare gli uomini. E allora infinocchiare ci starebbe bene. Socrate conferma: è proprio nel Levante che nasce la pedofilia istituzionalizzata, nobilitata addirittura come “costume etico-pedagogico”, ipocritamente reso rispettabile come “amore greco”. Ma pur con belle parole sempre nella sodomizzazione di bambini andava a finire.
      Ebbene, da bulgaro (cfr. anche il francese boulgre o bougre, e l'inglese bugger) con accrescitivo e spregiativo in –one, forse  attraverso un ulteriore adattamento latino in bugeronem (da: bugero-bugeronis), viene bulgarone, buggerone o buggiarone o buzzarone, buggerare. Sempre nel doppio significato, uno reale, di sodomizzare (penetrazione anale di uomini), l’altro figurato, di ingannare, imbrogliare. Il buggerone, insomma, era il sodomita attivo, cioè l’opposto della bardascia o bardassa, altra antichissima e popolare voce italiana, declinata al femminile (dall’arabo bardag, giovane schiavo), che era il sodomita maschile esclusivamente passivo che ama essere penetrato. Due categorie contrapposte e non confondibili tra loro, come l’acqua e il fuoco, la pazzia e la prudenza:

Sei mezzo pazzo e mezzo sei prudente, (...)
mezzo bardascia e mezzo buggiarone
dimmi, per Dio, com'e possibil questo? 

(Matteo Franco, in Sonetti di Matteo Franco e Luigi Pulci, 1759)

Ed ecco un bel ritrattino sui giovani depravati e prostituti, anche e soprattutto allora tanto numerosi, data l’estrema povertà, dedicato ai tanti che ottusamente ripetono ignorando la storia del costume: “Oggigiorno, signora mia, non si sa dove andremo a finire…”:

Queste bardasse isfondolati e ghiotti
vanno scopando il dì mille bordelli
e per mostrarci se son vaghi e belli
cercando van per chi dietro gli fotti. 


(Queste bardasce sfondati e avidi vanno scopando tutto il giorno mille bordelli e per farci vedere che sono belli vanno cercando chi dietro li penetri, Francesco Da Colle, sec. XV, in A. Lanza 1973).

Anche la satira del Parini, nel ‘700, prende di mira un buggerone che giunto a Roma (doppio senso col Culiseo), confessa di voler solo inculare, e di non amare il sesso debole cioè le donne (“darei cento gonnelle per un pantalone”):

Giunto al cospetto del Culiseo Romano
così cantava un buggeròn toscano:
“Il mio genio è buggerone,
non inclina al sesso imbelle:
donerìa cento gonnelle
per un lembo di calzone”.


E una satira del Seicento attribuita a Giovan Battista Marino, ma col sapore goliardico della Ifigonia:
Fatevi buggeròn, voi che non sête,
e in cul ponete ogni speranza vostra  (...)
piangete il tempo che perduto avete  (...)
e queste pote [fighe] siansi sempre a noia,
lasciando le morir, crepar di foia. 

(Foglio, s.i.t., 1650 ca. Parigi, Bibliothèque nationale, Enfer).

E anche il sulfureo Aretino, figuriamoci, non si sottrae all’esortazione “contro natura” spacciandola per naturale: se la figa non ti piace, “muta luogo”, perché non c’è uomo che non sia, sotto sotto, buggerone:

E s'in potta ti spiace, muta luoco,
ch'uomo non è chi non è buggiarone. 

(Pietro Aretino, Sonetti Lussuriosi I,2,7-8)

E’ di questa idea anche il prete mascalzone ritratto dal Belli, che quando una donna va a confessargli di aver tradito il marito, le fa fare “penitenza”, buggerandogli, cioè sodomizzandogli il bambino di sette anni:

E llui pe ffajje fà la pinitenza
j’ha bbuggiarato un fijjo de sett’anni. 

(Er Curato de ggiustizia, 1833)

E quanti buggeroni, oggi diremmo pedofili, tra monsignori e cardinali! I sonetti del Belli (dell’Ottocento) ne sono pieni. Ma il fenomeno era antico: ecco una pasquinata romana del Cinquecento. Segno che la pederastia è proprio un vizio connaturato della Chiesa cristiana, specialmente romana:

Qui giacion tutti quanti i cardinali,
chi buggeròn e chi per altro tristo,
ma ciaschedun di lor nemico a Cristo.  

(Anonimo [1540], in: V. Marucci, Pasquinate romane del Cinquecento, Roma 1984).

Ma non si pensi che buggerare sia una parola romanesca. Nel senso di ingannare è ancor oggi nel linguaggio comune e familiare italiano. Solo che ha perso il primitivo valore pederastico, omosessuale. Buggerone, invece, era comune nell’Ottocento in tutt’Italia e in gran parte dell’Europa (cfr. l'antico tedesco puzeròn e lo spagnolo bujarròn). E’ o era presente nell’italiano toscano corretto e letterario, come in quello familiare e dialettale: dal lombardo bolgiron, al veneto buzeron o buzaron, al siciliano buzzarruniBuzzarruni? Ah, ecco da dove proviene l’epiteto di buzzurri, altrimenti inspiegabile, dato dai romani papalini ai piemontesi e in genere “nordici” che invadono Roma dopo il 1870! Il parallelo con l’analogo nomignolo di froci dato a svizzeri (guardie del Papa e mercenari) e tedeschi dai romani è evidentissimo. In realtà buggiarone o buzzurro era un dispregiativo per chiunque venisse da fuori, straniero del nord o dell’Oriente che fosse. 
      Ed erano tempi in cui, per ignoranza specialmente geografica, non si andava troppo per il sottile: un cereale non casalingo “venuto da fuori” era chiamato dal popolo grano saraceno (Fagopyrum esculentum, prob. origine: Asia Centrale) o addirittura gran turco (Zea mais, America centrale). Poi per estensione buggiarone divenne, passando di bocca in bocca nel popolo, specialmente romano, il concentrato di tutte le negatività, anche non sessuali. Insomma, nel gergo romanesco popolare-familiare del Belli, la parola è come se passasse da “puttana” (femminile) a “figlio di puttana” (maschile), cioè persona che cerca di fregarti, egoista, aggressiva, strafottente, cinica ecc.:

Bevi fijo; e a sta gente buggiarona
Nun gnene fà restà manco una goccia. 

(Bevi, figlio e a questi mascalzoni non farne restare nemmeno una goccia. L’aducazzione, G.G. Belli).

Sorprende, infine, che un ulteriore significato sia grande, grosso, molto grande, eccezionale, oppure di grande quantità, e perfino una cosa qualunque non specificata ma comunque detta in modo dispregiativo, com’è tipico della parlata romanesca. E anche qui ci sono seri documenti registrati anche dal Dizionario romanesco del Ravaro: “un freddo buggerone” (G.G. Belli), “Avecce ‘na fifa [paura] buggerona”, ‘na sete buggerona” (Zanazzo) ecc. Infatti, il sostantivo buggerìo è una grande quantità. Ma stranamente buggero è una cosa qualunque non specificata, detta però per sfottò. Come un fregno, un coso ecc., insomma qualunque oggetto o persona di nessun valore, che non ci si degna neanche di nominare. “Ah, ho capito, signora maestra – poteva dire alla fine dell’800 Richetto, il borgataro romanesco dell’ultimo banco, dimostrando di non aver capito niente, oppure di aver capito tutto – “buggiarà Santaccia (*) vuol dire in culo a màmmeta, come dicono i napoletani, mentre Santaccia buggiarona vuol dire che Santaccia è una donnona grande e grossa, ma è anche una gran paracula e fiija de na mignotta [furba, spavalda e cinica oltremodo]!”

NOTA
(*) Santaccia nella Roma del Belli [cfr. i due sonetti su “Santaccia de piazza Montanara”] era una notissima “donna di malaffare” d’infimo rango, volgarissima ma di cuore buono, che aveva operato probabilmente a inizio Ottocento nella oggi scomparsa piazza Montanara. Così era passata in proverbio come tipo di prostituta laida. Ma col tempo “buggiarà Santaccia” era diventata una imprecazione volgare, perfino un intercalare catartico del popolino romano, comunque severamente vietato. Infatti in un sonetto del Belli un parrocchiano deve pagare una multa-penitenza al parroco, che aveva messo una curiosa tassa sulle parolacce, per averla pronunciata in sua presenza.

IMMAGINE. La lingua è in movimento e le parole sono in evoluzione, d’accordo. Ma se si sa dove vanno, non si sa da dove vengono.

JAZZ. Coleman Hawkins e Ben Webster, grandi stilisti del sassofono tenore, si incontrarono nel 1957 a Kansas City in uno dei famosi e felicissimi concerti organizzati da Norman Granz. Con loro, Oscar Peterson (piano), Ray Brown (batteria), e Herb Ellis (chit). Ecco il brano Tangerine.

AGGIORNATO L'11 OTTOBRE 2018

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17 giugno 2011

REFERENDUM. Cittadini più saggi del Governo: no a svendite di beni pubblici

Ernesto_Rossi mentre corregge un testo

Il dopo-referendum porta con sé una scia interessante di commenti e interpretazioni. Ecco un originale articolo dell’intellettuale liberale crociano Livio Ghersi, pervenuto col titolo “La saggezza popolare espressa nel voto referendario”, che dimostra ai tanti poco esperti di Liberalismo che un importante filone della nostra dottrina non è né ultra-liberista, né pregiudizialmente anti-Stato. Basti solo pensare alla politica economica di Cavour, e al fatto che non essendo i liberali una frangia marginale della storia del pensiero politico ed economico, ma anzi avendo gestito i più grandi Stati del Mondo, sono stati obbligati a confrontarsi con tutti i problemi complessi di un grande Stato liberale. Del resto, il mercato liberale non coincide né con gli interessi di questa o quella azienda privata, né con i produttori, ma è un insieme di regole, poche ma ferree, che regolano su un piede di rigorosa parità tutti i concorrenti, privati o pubblici, sia per evitare privilegi di alcuni di loro, sia soprattutto allo scopo di tutelare i diritti del cittadino, cioè del consumatore. E anzi, uno Stato davvero liberale si preoccuperà di predisporre i mezzi più adatti per facilitare il godimento dei diritti di libertà di tutti i cittadini e il rispetto delle regole anche in economia, in questo caso istituendo Autorità indipendenti garanti della concorrenza, del mercato e della tutela dei consumatori. Insomma, lo Stato liberale è insieme un “facilitatore” e un arbitro neutrale ma attivo, a suo modo, dotato di potere sanzionatorio, per diffondere le libertà ed aumentare quello che gli americani chiamano il grado di “felicità” dell’Uomo, di tutti gli uomini. NICO VALERIO

“Lasciamo parlare le cifre.

  • 25.935.372 cittadini italiani hanno votato SI alla proposta di abrogazione di disposizioni concernenti l'affidamento e gestione di servizi pubblici di rilevanza economica. Sullo stesso quesito, i NO espressi sono stati 1.265.495.
  • 26.130.637 cittadini italiani hanno votato SI alla proposta di abrogazione di disposizioni concernenti i criteri di determinazione della tariffa del servizio idrico. Sullo stesso quesito, i NO espressi sono stati 1.146.639.
  • 25.643.652 cittadini italiani hanno votato SI alla proposta di abrogazione di nuove disposizioni concernenti la produzione di energia elettrica nucleare. Sullo stesso quesito, i NO espressi sono stati 1.622.090.
  • 25.736.273 cittadini italiani hanno votato SI alla proposta di abrogazione di disposizioni in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri. Sullo stesso quesito, i NO espressi sono stati 1.462.888.

I dati sono tratti dal sito del Ministero dell'Interno e riguardano la totalità delle sezioni in Italia e la totalità dei voti espressi dai cittadini residenti all'estero. Il rapporto di venticinque ad uno, tra SI e NO, si spiega con il fatto che i contrari all'impostazione dei quesiti hanno preferito disertare il voto, puntando sul mancato raggiungimento del quorum di validità dei referendum.

Invece, dopo quindici anni consecutivi che non si raggiungeva il quorum per i referendum abrogativi, si è avuto questo dato straordinario, imprevisto ed imprevedibile, di massiccia partecipazione degli elettori. Risultato tanto più straordinario perché le reti televisive del servizio informativo pubblico (RAI) non avevano certo brillato per spiegare all'opinione pubblica la materia del contendere, con spazi e tribune dedicati ai referendum. Fatte sempre le dovute eccezioni (in particolare, segnalo in positivo RAI-News 24).

Si può dare una lettura politica del voto. Si coglie, negli elettori, un diffuso sentimento di malcontento e di protesta nei confronti della politica dell'attuale Governo. Malcontento e protesta che si erano già manifestati in modo clamoroso nella recente tornata di elezioni amministrative; determinando, ad esempio, l'elezione di Giuliano Pisapia a Sindaco di Milano e di Luigi De Magistris a Sindaco di Napoli.

Soltanto sei mesi fa nessun analista o commentatore politico rispettabile avrebbe azzardato una previsione su questo esito del voto nelle elezioni amministrative, prima, e del voto referendario dopo. Il mese che va dal 15 maggio al 13 giugno 2011 sarà forse ricordato dagli storici futuri come fatale per il destino politico di Silvio Berlusconi.

Lascio queste valutazioni, più facili, ai tanti che si cimentano e continueranno a cimentarsi nel commento politico. Mi interessa soffermarmi sul significato del voto ai primi due referendum, quelli riguardanti il bene dell'acqua. I quesiti referendari sono stati elaborati, sotto il profilo tecnico-giuridico, da sei docenti universitari. Tre dell'Università di Roma "La Sapienza": i professori Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara e Stefano Rodotà. Uno dell'Università di Torino: il prof. Ugo Mattei. Uno dell'Università di Napoli "Federico II": il prof. Alberto Lucarelli. Uno dell'Università di Palermo: il prof. Luca Nivarra.

Mattei, Rodotà ed Edoardo Reviglio hanno fornito un approfondimento teorico con in libro: "Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica" (Il Mulino, 2007). Intervistato dal quotidiano "La Stampa" ("La scommessa sull'acqua del professore di Torino", edizione del 14 giugno 2011), Mattei ha ricordato alcune scomode verità. Quando lo Stato espropria, è tenuto ad indennizzare i privati espropriati, secondo parametri certi e garantiti.

Viceversa, quando un Ente pubblico dismette la gestione diretta di un bene che costituiva un monopolio naturale (come, appunto, l'acqua), non si preoccupa che l'affidamento del servizio sia rimunerativo (eppure, i cittadini stanno perdendo il controllo di un bene di utilità comune). Si ha fretta di scaricare la gestione di quel bene prezioso al primo che si dichiari disposto a farsene carico; non si batte ciglio, quando i privati affidatari richiedono margini di profitto, a fronte dei capitali investiti, e computano fra i costi a proprio carico pure "compensi astronomici" per i manager utilizzati per l'organizzazione del servizio. E' tutto a perdere. E' una vecchia logica, che il buon Ernesto Rossi aveva brillantemente sintetizzato nell'espressione: "privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite" (si veda "Lo Stato industriale", Laterza, 1953, p. 52).

Prima che si votasse per i referendum, ho letto una buona analisi di Paolo Leon: "La deriva privatistica dell'ultimo ventennio ha concentrato l'attenzione sulla gestione dell'acqua potabile, immaginando che la concorrenza, attraverso il mercato, avrebbe ridotto i guasti della gestione pubblica (perdite di rete, morosità, arretratezza tecnologica) mentre la spesa necessaria per mantenere e far crescere le infrastrutture poteva essere addossata alla gestione privata (che, peraltro, l'avrebbe fatta comunque pagare nella tariffa, esattamente come la gestione pubblica). Ora, la gestione pubblica dell'acqua potabile è spesso pessima, perché i governi locali sono pessimi. Ne segue che la liberalizzazione è in realtà una privatizzazione volta a sottrarre il settore pubblico dalle sue responsabilità: una fuga, non una soluzione" (ne "L'Unità", edizione dell'11 giugno 2011).

Ho ascoltato assertori del NO al Referendum argomentare che l'acqua deve essere gestita con gli stessi criteri normalmente seguiti per l'affidamento di altri servizi pubblici locali di rilevanza economica: ad esempio, il servizio di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti. Se c'è un settore che, più di ogni altro, costituisce la prova provata della cattiva amministrazione, della cattiva politica, del degrado del vivere civile, della criminalità organizzata che si sostituisce ai poteri pubblici e detta le proprie leggi, quello è appunto il settore dei rifiuti!

Bisognerebbe che ogni tanto si dicesse qualche verità scomoda: per le opere pubbliche più complesse dal punto di vista della tecnica costruttiva e per l'affidamento di servizi pubblici di primaria rilevanza sociale, un Legislatore razionale ed insieme realista dovrebbe proibire, scansare come la peste, il criterio dell'affidamento al maggiore ribasso. Quanto più gli operatori economici con cui si viene a contatto sono spregiudicati, tanto più sono disposti a concordare prezzi stracciati pur di vincere la gara. A loro conviene sempre: negli appalti di opere, si può procedere a successive variazioni di prezzo; sia negli appalti di opere che in quelli di servizi, si può guadagnare molto omettendo di fare tutta una serie di adempimenti che per contratto si sarebbe obbligati a fare. Tanto chi controlla? Chi ha preso la mazzetta? L'offerta più conveniente, dal punto di vista dell'interesse generale, si può valutare davvero soltanto ex post, dai risultati: da come un'opera pubblica viene realizzata (anche, da quanto dura nel tempo); dalla qualità e dall'efficienza del servizio che viene reso.

Non sono antistatalista; credo anzi nel valore positivo dello Stato, quando sia uno Stato di diritto. Non è vero che gli impiegati pubblici siano necessariamente inefficienti e che il loro lavoro sia sostanzialmente parassitario. E' quello che vorrebbero dare ad intendere quanti, in questi anni, hanno deliberatamente perseguito l'intento di distruggere dall'interno le pubbliche amministrazioni, proprio perché non potessero assolvere i loro compiti d'istituto. Conosciamo la canzone. Non sanno fare: quindi, affidiamo la gestione dei servizi pubblici agli imprenditori privati. Costano troppo: quindi, lasciamo gli organici scoperti e diamo gran parte del lavoro all'esterno, in "outsourcing". Sono troppo lenti: quindi eliminiamo ogni autorizzazione ed ogni concessione, e consentiamo ai privati di intraprendere e di costruire liberamente, dopo una semplice dichiarazione di inizio attività.

Impiegati pubblici ben motivati, orgogliosi di poter servire la comunità di cui fanno parte, ben organizzati da dirigenti capaci, pagati in modo da poter condurre un'esistenza dignitosa, arricchiti professionalmente da periodici scambi di esperienze con colleghi che altrove svolgono il medesimo lavoro, possono produrre ottimi risultati. Certamente non inferiori ai risultati forniti dai dipendenti, magari sfruttati e mal pagati, di imprenditori privati.

Fino a non molti anni fa, una serie di funzioni di primario interesse sociale erano normalmente assolte da pubblici impiegati: dalla gestione delle risorse idriche, alla manutenzione delle reti fognarie; dal consolidamento degli argini di fiumi e torrenti, alla cura di ville, giardini e spazi verdi; dalla raccolta dei rifiuti, ai trasporti urbani. In questo modo, le amministrazioni e le aziende municipalizzate acquisivano nel tempo un patrimonio di saperi, di conoscenze specifiche. In altri termini, erano le amministrazioni, più che le aziende private, a possedere il vero "know how": cioè il saper far funzionare le cose. Lo stesso fenomeno per cui una volta erano molto ricercati nell'aviazione civile i piloti che prima si erano formati ed avevano fatto esperienza nell'aviazione militare.

Una cosa è lamentare eccessi burocratici e chiedere procedure snelle e trasparenti; altra cosa è tendere all'eliminazione degli apparati burocratici.

Gli oltre ventisei milioni di elettori italiani che hanno votato SI al referendum sulla tariffa del servizio idrico, secondo me hanno voluto esprimere un pensiero di fondamentale importanza, nella sua semplicità: finiamola con le privatizzazioni, che troppo spesso altro non sono che svendite di beni pubblici e regalìe ai privati. Finiamola con la retorica delle liberalizzazioni, perché la cura del bene comune richiede comunque pubbliche amministrazioni ed amministrazioni efficienti. Abbiamo cura dell'acqua, della natura, delle produzioni agricole, del ciclo della vita. La Chiesa cattolica usa un'espressione molto efficace al riguardo: "salvaguardia del Creato". Certamente moltissimi fra i SI sono stati espressi da credenti, cristiani e cattolici. Il loro apporto è necessario e potrà essere determinante affinché il Paese, nel suo insieme, riconquisti la speranza di un futuro migliore.

Riqualificare i poteri pubblici, riorganizzare le pubbliche amministrazioni, studiare le soluzioni organizzative più indicate per tenere la cattiva politica lontano dagli apparati pubblici, assumere in ogni territorio giovani volenterosi e meritevoli che vogliano effettivamente operare al servizio della comunità: una politica nel segno del cambiamento deve fare propri questi obiettivi. Ciò significa avere la consapevolezza teorica e la determinazione politica che occorre voltare pagina, rispetto agli ultimi vent'anni dominati da logiche neo-liberiste.

I fautori del liberismo economico presumono di avere le migliori ricette per promuovere sviluppo economico. Nel breve e medio periodo quelle medesime ricette alimentano, però, forme di occupazione precaria e di vero e proprio sfruttamento lavorativo (cosa succede nel lungo periodo conta relativamente, perché, come diceva Keynes, nel lungo periodo siamo tutti morti). Quelle medesime ricette portano alla devastazione delle risorse ambientali (che non sono illimitate) e questa è una certezza. Infine, spesso portano pure alla distruzione della ricchezza privata accumulata sotto forma di risparmi (come avviene in modo ricorrente con le crisi dei mercati finanziari internazionali). Né, finora, si sono trovate regole sicure e sanzioni efficaci contro gli speculatori finanziari. Siamo di fronte all'evidenza pratica di un fallimento teorico.

Non basta appellarsi al principio che spetta ai pubblici poteri, ossia ai decisori politici, stabilire le regole che poi gli operatori del mercato sono tenuti a rispettare. Troppo spesso questa è una fictio: ogni volta che si fissano regole (a tutela della salute, dell'ambiente naturale, delle bellezze paesaggistiche, o per promuovere uno sviluppo urbanistico ordinato), poi si manifestano subito le spinte di segno contrario, per liberare l'economia dai "troppi lacci e laccioli" che la soffocano. Lo spirito dei tempi di Ronald Reagan fu proprio questo e così si è andati avanti finora.

Qual è il limite massimo di disoccupazione (e di occupazione precaria) che una società può sopportare? Negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, i politici di professione e gli intellettuali attribuivano importanza prioritaria a questa domanda. Oggi sembra che la questione non vada più nemmeno posta. Errore gravissimo. Per confutare il quale, non serve richiamare ponderosi testi di economia politica. Basta ricordare una canzoncina cantata da Rita Pavone quando interpretava Gian Burrasca, in un fortunato sceneggiato televisivo degli anni 1964-1965: "La storia del passato ormai ce l'ha insegnato che un popolo affamato fa la rivoluzion". Questa è l'autentica saggezza popolare. I nostri fratelli Arabi attualmente stanno appunto facendo la loro rivoluzione in Nord Africa e nel Medio Oriente.

Lasciatemi concludere che, dopo tante amarezze e sconfitte, individuali e collettive, il 13 giugno 2011 ho vissuto, con piena soddisfazione e consapevolezza, una bella pagina della storia d'Italia. Ringrazio i ventisei milioni di Italiani che mi hanno regalato questo momento. Anch'io, nel mio piccolo, ho contribuito a regalarlo a loro. Il bello della libera democrazia è questo: che tutti danno e ricevono per affermare una concezione comune.
LIVIO GHERSI

IMMAGINE. Ernesto Rossi, allievo prediletto di Luigi Einaudi, sul Mondo di Pannunzio scrisse articoli di fuoco, da polemista liberale attento all’economia, nemico dei monopoli e fautore di una reale concorrenza, contro l’uso invalso in Italia, con la scusa delle privatizzazioni, di “privatizzare i profitti e socializzare le perdite".

JAZZ. Django Reinhardt col suo Quintetto dell’Hot Club de France in Limehouse Blues. Con D.R alla chitarra. Stephane Grappelli  al violino, Louis Vola al contrabbasso. Non si sa chi è alla chitarra ritmica, il fratello di Reinhardt, Joseph (probabilmente), oppure Roger Chaput o Pierre Ferret.

15 giugno 2011

ACQUA PUBBLICA. Ha vinto l’Italia che ha capito il referendum-metafora.

Festa Ecologisti al Pantheon per il quorum Referendum (2011)ATMOSFERA NUOVA, ANZI ANTICA. Sembrava quasi di essere ai tempi dei grandi referendum radicali, come il divorzio e l’aborto. Certo, non paragonabili le folle in piazza. A quei tempi c’erano ancora i “comizi” oceanici, e le “manifestazioni” erano quotidiane. Oggi tutto si fa da casa col computer nei social forum, sui blog o con email, e una conferenza di venti persone, un tavolino di raccolta firme o un volantinaggio al mercato sono già considerati grandi esempi di “coinvolgimento diretto dei cittadini sui temi sociali”. Ma sicuramente per i quattro referendum del 12 e 13 giugno (centrali nucleari, gestione privata e profitti negli acquedotti e negli altri servizi pubblici, legittimo impedimento in giudizio per gli alti gradi delle Istituzioni) si è respirata un’atmosfera di frenesia, entusiasmo, partecipazione, analoga ai primi referendum. E come nei grandi temi d’opinione, quindi trasversali, l’attivismo era diffuso in tutti gli strati sociali e perfino politici, in città come in provincia.

GIOVANI E DONNE. E poi i giovani! Mai visti negli ultimi vent’anni così tante ragazzi e ragazze, darsi da fare per l’odiata “politica”, fare propaganda ovunque, con tavolini, ai semafori (con scenette rapidissime, in maschera, che dovevano durare esattamente il tempo del segnale rosso), perfino alle feste o in spiaggia, tentare di convincere l’amico incontrato per caso in strada o in autobus. E le donne! Mai viste tante signore qualunque, per intenderci, le classiche “casalinghe”, quelle che magari non hanno neanche un pc o al massimo sanno inviare una email, raccomandarsi l’una con l’altra di votare, e di votare sì. Così, ne è scaturita una propaganda capillare spontanea mai vista nel Paese anti-anglosassone per eccellenza, cioè anti-idealista, che è l’Italia. Paese cinico, però atavicamente fazioso, e in questo caso lo spirito di fazione ha sopperito alla mancanza di idee e di ideali: i “nostri”, cioè i giusti, i buoni, dovevano prevalere a tutti i costi. E meno male che, una volta tanto, l’obiettivo della nostra “faziosità” era indovinato. I “nostri” hanno davvero prevalso, in un nuovo conformismo, finalmente costruttivo.

CHI HA VINTO, E CHI HA PERSO. Vittoria, vittoria, vittoria! Sì, certo. Il 57 per cento degli Italiani al voto, dopo decenni, e di questi ben il 95 per cento per il sì. E vittoria nostra, una volta tanto. Sì, ma “nostra” di chi, “contro” chi? Contro i pochi, troppi, che governano, contro la Casta? Contro questo Governo di Destra senza idee, ma sicuramente in perenne conflitto d’interesse, affarista, anti-liberale, clericale, anti-ecologico, autoritario, talvolta perfino mussoliniano nei modi, nell’ottusità, nell’odio per il dissenso, la cultura, l’ambiente? Contro un modello ultra-conservatore di speculazione sul territorio, in favore dei soliti investitori e costruttori amici? Sì, certo, contro tutto questo.

CONTRO L’ARROGANZA. Ma vittoria di chi? Dei tanti cittadini, per lo più di provincia, riuniti nelle associazioni civiche per la “difesa dei Beni Comuni”, categoria di beni dimenticata in questi ultimi vent’anni di parole d’ordine conservatrici, alla Reagan, in cui l’egoismo, lo spreco, l’abuso delle risorse ad libitum, erano il “valore” dominante, un dovere di status sociale, l’ostentazione arrogante e infantile di un bene inutile come potere (si pensi al valore simbolico di un fuoristrada, il cosiddetto SUV, quando circola ostruendo vicoli e stradine del centro cittadino), oppure  della minoranza di veri e propri ecologisti motivati e informati, o ancora della gran massa di semplici cittadini, magari più zelanti e consapevoli degli altri? O infine di una fetta di opinione pubblica stanca di soprusi e privilegi da parte di una Destra senza l’antica dignità delle destre storiche, e del suo leader così pateticamente inadeguato, che non aspettava altra occasione per rivelarsi, contarsi, compattarsi in vista di una vera e propria nuova opposizione politica?

IL POPOLO DEL SI’: TRANS-PARTITO. Fatto sta che fuori del controllo dei partiti, tutti presi di contropiede, il “popolo del sì” si è inorgoglito del suo stesso numero ed ha seguito solo le associazioni civiche e i comitati promotori (“per l’acqua”, “per il no al nucleare” ecc) decidendo che il sì non sarebbe stato una scelta “tecnica”, “scientifica”, ma una grande occasione di rivalsa politica. E così hanno contagiato perfino i militanti di partito, i pochi rimasti, e l’intera base elettorale referendaria, che com’è noto è ben diversa e ben più mobile di quella elettorale politica. “Finalmente vittoriosi, dopo tante sconfitte”, devono essersi detti perfino nel PD. Qualunque fosse il tema, il pretesto. Non curandosi del fatto che per delineare in prospettiva una vera alternativa politica servono ben altri metodi, ben altri programmi, ben altri leader (categoria vista come il fumo negli occhi dai comitati cittadini). E se pensiamo che proprio il segretario del PD, Bersani, era stato firmatario della legge che permetteva l’ingresso dei privati nell’acqua pubblica, la legge da abrogare, è difficile immaginare che dietro questo successo dei sì possa nascondersi in nuce una futura maggioranza politica alternativa. Però…

UN VOTO DI RIVALSA. Però, ripeto, al popolo variegato e trasversale dei comitati civici, del Beni Comuni, e perfino ai militanti politici del Centro e della Sinistra, e a tanta gente comune, serviva una vittoria, comunque. Dopo anni di Grande Crisi e di Governi reazionari. E serviva la prova che quando si ritrova su temi e metodi di lotta non-violenti tipici degli ecologisti, l’alternativa trasversale diffusa tra Destra, Centro e Sinistra diventa credibile, e vince.

LA KOINE’ ECOLOGICA. Perché oggi c’è un nuovo curioso fenomeno: gli strati, i settori, le frange, insomma le minoranze più disparate che avevano qualcosa per cui protestare, parlando linguaggi diversi e a rigore incompatibili tra loro, dai localisti della Lega ai qualunquisti civici, dai liberali ai comunisti, dai tanti senza nessuna idea (che in genere si astengono) ai pochissimi con idee forti ed esagerate, per esprimere lo stesso sì avevano bisogno di un minimo denominatore comune, un linguaggio “basic” riconosciuto da tutti. Questa koinè insieme linguistica e tematica, è stata il collante vincente: l’ambiente. Nessuno può negare che i temi unificanti  sono stati quelli ambientali, tant’è vero che perfino le lotte dei comitati locali di cittadini e anti-Casta si sono concentrate, all’atto pratico, su temi come inquinamento, acqua, energia, rifiuti, risparmio. Ecco perché tutti hanno, abbiamo, votato in blocco i quattro “sì”, senza stare a distinguere (eppure, tecnicamente, ci sarebbe stato da distinguere, eccome, vedi il referendum sull’acqua), perché ogni distinguo avrebbe compromesso l’efficacia dirompente di questa massa d’urto.

SEMPLIFICAZIONE. E’ vero, inutile cercare il pelo nell’uovo. Un referendum, per lo meno come sono congegnati in Italia, è sempre una grande semplificazione, una simulazione, una rappresentazione ludo-politica, un grande gioco. Per un giorno facciamo “come se” i cittadini davvero contassero, decidessero in prima persona. Roba da Forum dell’antica Roma. E ha poca importanza, in questa visuale, se la volontà popolare si è espressa con grande approssimazione, come voleva la disinformazione d’ambo le parti, e come volevano Governo, Tv, giornali.

LA NON INFORMAZIONE. E, perciò, c’è stata anche mistificazione, come no. E superficialità. E paura. E allora? Le parole d’ordine erano slogan brevi e taglienti, non dimostrazioni di saggi tecnici. E si trattava d’un referendum popolare, non d’un convegno di scienziati. Allo Stato, certo, sarebbe spettato – attraverso tv, web, pubblicità, scuole superiori, ecc – informare i cittadini in modo dettagliato e neutrale, prepararli “tecnicamente”. Questo deve fare uno Stato liberale: fare in modo che sia più agevole per i cittadini esplicare diritti e doveri. Invece un Governo ottuso e scopertamente fazioso fino ad essere autolesionista non ha permesso nulla di tutto questo, ma ha anzi boicottato visibilmente l’informazione popolare, ha fatto di tutto perché gli elettori non sapessero.

LA FURBIZIA PUNITA. Ma la gente se n’è accorta. Questo vero e proprio attentato contro l’informazione democratica (il “conoscere per deliberare” caro al liberale Luigi Einaudi) ha svelato alla massa dei cittadini il vero valore politico sottostante dei referendum, e visto che davano così tanto fastidio ad un Governo di Destra non liberale ha spinto molti liberali e perfino alcuni liberisti, che forse avrebbero votato due o tre sì e uno o due no, a votare per dispetto tutti e quattro i sì, contro un Governo dedito all’intrigo, alla bugia sistematica e alla furbizia, sfacciatamente autoritario e illiberale come mai in passato, tanto da paragonarlo per atteggiamenti e comportamenti – si pensi solo all’allontanamento di comici e conduttori sgraditi dalla tv – addirittura col ventennio fascista. A quel punto – hanno pensato le persone più illuminate e moderate, chiamiamole pure “liberali”, di Destra, Centro e Sinistra – il pericolo più grave e urgente da allontanare non era più l’acqua pubblica e burocratica, o i possibili carrozzoni (anche perché in Italia abbiamo visto perfino carrozzoni burocratici e poco efficienti in mano a privati), ma proprio lo stesso autoritarismo ottuso del Governo. Prima – devono essersi detti – bisogna evitare il guaio maggiore, poi il minore.

IL VALORE POLITICO. E’ stato il Governo di Destra a dare in tal modo “valore politico” di plebiscito sul suo leader a questi Referendum, dandosi la zappa sui piedi. Era prevedibile, perciò, che un referendum reso elementare, impreciso e approssimativo dalla brutale semplificazione del si-no a quesiti in realtà complessi e dalle imprevedibili reazioni a catena (come l’acqua e i servizi), avrebbe chiamato un voto psicologicamente e politicamente denso, complicato, contraddittorio, trasversale, pregnante come se contenesse tanti piccoli “sotto-voti” inespressi e sottaciuti.

VOTO STRUMENTALE. Così, neanche gli ecologisti hanno pensato davvero soltanto all'acqua o al nucleare, come pure andavano dicendo per tattica di comunicazione politica. Molti, si sono immersi consapevolmente in un voto “totale e contraddittorio”,  perché hanno pensato anche e soprattutto al bene o male che col quel voto avrebbero fatto a qualcuno. Da se stessi a certi Partiti, fino al Premier.

INCOERENZA, PROVA DEI TEMPI MUTATI. La prima prova della prevalenza dell’ambiente, del clima, insomma del “sotto-voto”, sul voto in superficie, è che almeno due leader di partito (Di Pietro e Bersani, autori di una delle leggi da abrogare, che porta la loro firma) hanno votato letteralmente contro se stessi. Mancanza di idee, politici-banderuola, uomini incostanti? No, semplicemente hanno capito al voto qual era il “sotto-voto” reale. Insomma, che i tempi erano cambiati. E un politico deve avere le antenne sensibili.

I PARTITI AL RIMORCHIO. Così, gli stessi Partiti sono andati al rimorchio della nuova opinione pubblica. La gran parte moderata della Sinistra e della Destra è saltata sul cavallo al galoppo miracolosamente apparso dietro la curva. Hanno approfittato dell'onda (“emotiva”, “irrazionale”, “passionale”, “non meditata”? che parole sono: tutte le consultazioni sono così in tutti i Paesi del Mondo) per concentrarsi sul secondo e terzo fine sottostante il voto. Scandalo? No. Questa è la politica. Che è anche mobilità, intuito psicologico, accorgersi dei cambiamenti mentre sono ancora in corso.

CINISMO OTTUSO DELLA DESTRA DI POTERE. A Destra, invece, sono così vecchi e perdenti che tutti presi a frequentarsi solo tra di loro, come una setta chiusa, o non si sono accorti dei tempi e delle idee della gente, o – peggio – hanno deciso di fare sfacciato ostruzionismo,  perché ormai lo stile dichiarato di questa Destra illiberale e dai modi fascistoidi è di far vedere di “non vergognarsi di nulla”. Così, hanno perso per questa mancanza psicologica, non per altro. Anzi, avevano già perso prima del voto.

LIBERISTI: COERENZA NOBILE MA FUORI LUOGO. E allo stesso modo hanno sbagliato gli amici liberisti veri, onesti, autentici, dall’Ist. Bruno Leoni (economisti indipendenti di Centro-Destra) alla Voce (economisti indipendenti di Centro-Sinistra), che hanno avuto il torto della professionalità e dell’ingenuità ideologica, e mentre il castello del referendum crollava su di loro, come nobili parigini sorpresi dalla Rivoluzione a giocare a wist, si attardavano a ricordare nostalgicamente come andavano bene le cose economiche temporibus illis, e come sarebbero andate bene se il Governo avesse seguito i loro consigli, perdendo tempo sui propri siti, su blog e riviste a disquisire di “concorrenza perfetta”, di valore sociale del mercato e di altre bellissime e verissime cose. Dimenticando, però, che un Governo per niente liberista, ma affarista in proprio o per conto di amici, ha finora sempre inteso per “mercato” l’arricchimento di alcuni produttori e l’impoverimento dei consumatori. Tutto questo fa a pugni col mercato liberale, basato su poche ma severissime regole. che, come insegna Einaudi, deve partire proprio dalla centralità dei cittadini, oggi diremmo dei consumatori.

LE RAGIONI DELLA POLITICA. Ma non si era all’esame di economia politica all’Università. Qui c’era da dare una lezione ad un Regime, e in subordine ad una Casta di rozzi privilegiati in abito blu che sfrutta l’Italia da decenni. Altro che accademia! Il problema era un altro. Certo che avevano-hanno ragione in teoria, ovvio che anche i privati dovrebbero avere la possibilità di gestire le energie pubbliche. Non solo perché siamo liberali oltreché ecologisti, ma anche perché l’Italia è pur sempre la settima potenza industriale del Mondo.

IL FINTO MERCATO DEGLI AMICI. Ma quali privati? Questo è il punto. Forse i soliti raccomandati, gli amici degli amici, le aziende pericolanti che si attaccano alle tariffe sicure per far quadrate i bilanci dissestati, gli imprenditori furbetti che con le perdite sapientemente gestite su un acquedotto poi vanno a pietire soldi e altre commesse al Governo? No, proprio no. Non è questo il “mercato”. E non può essere certo questo Governo, questa Destra, a farsi paladina o garante – che faccia tosta! – della libertà di mercato che ha più volte contraddetto favorendo non i cittadini, cioè i consumatori (il mercato solo loro, siamo noi, ripeteva Einaudi), ma solo pochi imprenditori amici, spesso finanziando coi nostri soldi le iniziative più anti-economiche e irrazionali.
Insomma, gli amici iper-liberisti, da ideologi puri legati al principio, ma ignari della realtà, non hanno capito che non era questo il momento, il luogo, il pretesto. Stavano ottusamente al testo, ignorando il pretesto. Nel referendum, sotto il referendum, in realtà si parlava d'altro, e loro non lo sapevano. E poi, se davvero tenevano al mercato libero, avrebbero dovuto pensarci prima, diciamo negli anni 90. Com’è che l’economista Martino, il loro leader, si accontentò del ministero della Difesa, senza mai fare la minima critica alla politica economica protezionistica, contro i consumatori e a favore delle grandi lobbies dei produttori?

PRETESTO E METAFORA. Il referendum, dunque, fin dall’inizio ha significato più di quello che diceva nel suo dispositivo di legge. Voleva dire parecchie cose, anche contraddittorie. E soprattutto aveva un valore traslato, analogico, pretestuale, simbolico. E quest’ultimo aspetto la gente del "sì" lo ha capito bene. Perché stavolta non c’erano i Partiti a confonderle le idee. Come lo hanno capito e temuto anche i cinici dell'astensione (i politici della Destra). Non lo hanno capito, invece, gli ingenui o idealisti del "no", che hanno creduto nello strumento del referendum, e con la loro presenza ai seggi, sia pure votando no, hanno rafforzato il quorum. Del che, noi che abbiamo votato tutti sì, li ringraziamo.
Il voto, insomma, era una metafora. E chi l’ha capita ha vinto.

Una indagine sociologica di Ilvio Diamanti, di molti giorni successiva a questo articolo, ha confermato gran parte della nostra analisi.

IMMAGINE. La festa degli ecologisti al Pantheon dopo il raggiungimento del quorum nel Referendum, con il coordinatore Angelo Bonelli (a sinistra) e il presidente dei Verdi del Lazio, Ferdinando Bonessio, che presentano la torta con la dedica “Grazie, Italia”.

JAZZ. Ecco due rare registrazioni col grande chitarrista gitano Django Reinhardt che suona a Roma nel gennaio-febbraio 1949, insieme col grande violinista italo-francese Stefano Grappelli. Li accompagnano gli italiani Gianni Safred (piano), Marco Pecori (basso) e Aurelio de Carolis (batteria). Studi della RAI, Roma. Il primo brano è Undecided, il secondo brano è Où es tu mon amour.

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05 giugno 2011

ACQUA. Non va privatizzata. Ma come mai interessa tanto gli investitori privati?

Rubinetto con acqua che scorreGATTA CI COVA. Inquietanti gli interrogativi possibili sulla questione dell’acqua pubblica da parte di un liberale Doc che è anche un ecologista della prima ora (*). Perché si invoca la libertà di mercato, stranamente, solo a proposito dell'acqua, storicamente noto bene pubblico, che darebbe oltretutto scarsi profitti? Come mai gli stessi politici che hanno conservato a tutti i costi la proprietà pubblica dell’Alitalia anziché farla fallire, che hanno finanziato la Fiat, che avrebbero voluto chiudere un occhio sullo scandalo Parmalat, che hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte ai ripetuti imbrogli delle banche, e che non vogliono privatizzare neanche la Rai, sono ora così interessati agli acquedotti, che sono in fondo dei “monopoli” naturali? Gatta ci cova... Non è che sotto il finto idealismo della “concorrenza” (ben difficile da realizzare negli acquedotti, che sono ciascuno un unicum, una sorta di “monopolio” naturale...) si vogliono nascondere i soliti favori a ditte amiche, senza che i cittadini-consumatori – posti sempre in secondo piano e lasciati nell’ignoranza – possano esperire i propri controlli, come pretende il sistema liberale? Perché tutto questo interesse? “Libertà di mercato", e pure zoppa, solo qui, dove è impossibile? Gatta ci cova...

FONDAMENTI. Intanto ripassiamo i sacri princìpi. La libertà di iniziativa privata è un cardine del sistema economico liberale e  occidentale. Chiunque, senza difficoltà legali o impedimenti burocratici, deve poter intraprendere, commerciare, produrre. L’unica selezione possibile deve essere quella del merito e della concorrenza. E i prezzi devono automaticamente definirsi solo per l’incontro tra domanda e offerta. Se questo avviene, i costi e i prezzi saranno i più bassi possibile.
Questi principi vanno ricordati, perché il libero mercato, purché gestito da poche ma severe regole, coincide con una economia liberale, ed è per analogia fondamento e condizione delle stesse libertà politiche.

MA IN ITALIA LA REALTA’ E’ BEN DIVERSA. Tra le regole – di rado rispettate in Italia – la prima è il divieto di monopoli e oligopoli, la seconda è che le aziende private devono far da sé, a costo di fallire, senza richiedere o ottenere ripianamento delle perdite o finanziamenti dallo Stato, la terza è l’equiparazione nei diritti tra produttori e consumatori. E ce ne sono altre.
Senza queste regole che garantiscono la concorrenza, la libertà degli imprenditori e di tutti i cittadini consumatori, non si verificherebbe la “uguaglianza nei punti di partenza”, condizione indispensabile nella duplice gara tra imprenditori privati e tra domanda e offerta, ma solo privilegi, favoritismi, corruzione, protezionismo, parassitismo, prezzi imposti, aumento ingiusto della tassazione, statalismo occulto, e comunque una economia da rapina e la decadenza economica e politica.

MERCATO ARRETRATO E POCO LIBERALE. Già questo preambolo fa capire quanto sia arretrato e poco liberale il capitalismo italiano, che già dal primo Novecento è parassitario nei confronti dello Stato, ricercando sussidi, finanziamenti, incentivi, opere pubbliche, commesse a condizioni di favore, prezzi imposti, divieti alle importazioni, rottamazioni di prodotti, cassa integrazioni date a comando ecc. Valga per tutti l’esempio classico della Fiat, accusata periodicamente di “privatizzare i profitti e statalizzare le perdite”. Con i soldi spesi dagli Italiani in tanti decenni per “salvarla” tutte le volte che è stata in crisi, i consumatori avrebbero potuto letteralmente comperarla. Ma anche il tracollo della Parmalat, i lunghi e inefficienti monopoli o oligopoli di banche, telecomunicazioni, energia, ferrovie, poste ecc, ufficialmente “privatizzati”, dimostrano l’inefficienza del sistema capitalistico italiano fondato comunque sulla mancanza di vera concorrenza, sulla disuguaglianza nei diritti tra produttori e consumatori, e sull’appoggio dello Stato.

MACCHE’ “PRIVATIZZAZIONE”, SOLO I NORMALI PROFITTI.  E’ anche vero però che, nonostante una diffusa vulgata demagogica, come ben dimostra il sito economico La Voce, l’attuale legge che si vuole abrogare non prevede nessuna privatizzazione forzata dell'acqua, e neanche mette in discussione la natura pubblica del servizio, l'accesso di tutti e il diritto dei cittadini-consumatori ad avere il bene pubblico acqua a condizioni accessibili. La legge, oltretutto, fu varata da un Governo “riformatore” piuttosto liberista di Centro-sinistra, e porta le firme di Prodi, Lanzillotta, Bersani e Di Pietro (oggi gli ultimi due, sull’onda dell’indignazione popolare, hanno cambiato idea e sono per… abrogare se stessi!). A ben vedere – spiega il sito con chiarezza e in modo convincente – non è l'ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici a far salire i prezzi dell’acqua di rubinetto, ma semmai una legge Galli del 1994, finora poco attuata, che ha defiscalizzato la gestione dell’acqua sottraendola al ripianamento del passivo da parte del Ministero del Tesoro. Secondo quella legge, qualunque gestore, pubblico o privato che sia, deve finanziarsi ricorrendo al mercato o alle proprie tasche, e quindi a deve basarsi su regole tariffarie uguali per tutti – pubblici o privati – in modo che la tariffa copra i costi di gestione, gli ammortamenti e il costo del capitale investito. Certo, bisognerà vigilare che non contenga anche extraprofitti.
Inoltre, la legge che si vuole abrogare riguarda non solo l’acqua ma anche altri servizi pubblici locali di rilevanza economica, come i trasporti e la nettezza urbana.

PERO’, IL PREZZO IN BOLLETTA AUMENTERA’. In quanto al prezzo finale dell’acqua di acquedotto per i consumatori, gli economisti del gruppo La Voce, lo calcolano oggi in media circa 90 euro/anno a testa. A regime potrebbero diventare il 20 per cento in più, e sul lungo periodo 140-150 euro pro-capite. Pur essendo 50 centesimo al giorno, non è poco, specialmente dopo anni e anni di una profonda crisi economica. Perciò, La Voce suggerisce un sistema di tariffe progressive che faccia pagare di più chi ha redditi più alti, e meno chi ha redditi bassi. Questo, anche a nostro parere, a parità di efficienza, potrebbe risolvere il problema dell’impatto sociale.

MA, ALLORA, PERCHE’ ATTIRA TANTO GLI INVESTITORI? Ma se questo è vero, se l’acqua pubblica non sarà mai privata, se il profitto possibile sarà modesto e analogo ad altri settori meno gravosi, non si capisce come mai, allora, i “privati” (la parola è forse diventata un simbolo, una vuota etichetta ideologica, oppure una scusa di copertura?), incapaci di gestire al meglio l’economia tradizionale privata, ci tengano così tanto a gestire i cosiddetti “beni pubblici”, come l’acqua degli acquedotti che servono i vari Comuni italiani. Hanno forse dato buona prova di sé nell’alimentazione, nell’energia, nelle banche, nelle telecomunicazioni? No. Eppure sono settori molto più “facili”, dove si potrebbe esplicare una vera concorrenza. E invece, quale concorrenza si può esprimere, per esempio, nella gestione dell’acquedotto di Tivoli? E’ ovvio che per sua natura è un “monopolio”. E’ forse possibile a tanti altri competitori installare altre tubazioni sotterranee parallele? No. E allora è chiaro che la concorrenza per la gestione degli acquedotti è una parodia: limitata solo alla fase iniziale dell’affidamento ad un gestore mediante gara. Ma questo avviene ogni 10 o 20 anni! Oppure, diciamo che la concorrenza la valuteranno a cose fatte, tra 200 anni, i posteri, confrontando tra loro i rendiconti delle varie società succedutesi storicamente nella gestione. E, visto che le tubazioni sono spesso antiche e bucate, con problemi di inquinamento e depurazione, chi sarà il privato “anima pia” e generosa che vorrà buttare nell’investimento o nell’ammodernamento milioni di euro, senza rifarsi subito aumentando drasticamente il prezzo del servizio sulle bollette (in un periodo di grave crisi economiche per le famiglie, oltretutto), oppure – se i consumatori protesteranno – andando a piagnucolare dallo Stato per avere finanziamenti sottobanco o il ripianamanento illegale del passivo di bilancio o altre concessioni più redditizie in compensazione? Insomma, visto il carattere unico di un acquedotto, in nessun modo è dimostrabile che un monopolio privato sia migliore per i cittadini, cioè dia una “maggiore felicità”, ovvero costi totali minori, di un monopolio pubblico, che almeno può essere controllato col voto e con gli altri strumenti di controllo democratico. Questo è il punto, che visti i precedenti, un liberale deve considerare.

ALTRO CHE PUBBLICO-PRIVATO. CI SONO SOSPETTI DI FAVORI E RICOMPENSE SEGRETE. Ma, poi, è forte il sospetto che la minacciata o temuta “privatizzazione” dell’acqua, quando il Governo non riesce, e neanche vuole, privatizzare un ente pubblico inutile e parassitario come la Rai-Tv, possa in realtà nascondere favori promessi ad aziende italiane amiche, ammanicate col Potere, che magari si dibattono nei gorghi della crisi (nel loro caso, sì, giudicata grave…), oppure debiti economico-politico da pagare alla Francia o alla Germania, o a qualunque altro Paese, in cambio di non si sa quali vantaggi per la classe politica di maggioranza.
Quello che conta è la qualità della gestione e dell’impianto. E a queste condizioni, neanche un liberale e liberista Doc ci sta a cadere nel mistificatorio tranello lessicale “privato uguale efficienza” e “pubblico uguale inefficienza”, come se si trattasse di ricorrere a quello che viene definito una sorta di “idraulico privato ed efficiente” chiamato in soccorso da sindaci e presidenti di Regione per riparare mani e tubi bucati dell’acqua pubblica. Insomma, gli ideologismi fondati sulle parole, solo parole, “pubblico” e “privato”, sono inadeguati, perché la realtà riserva sorprese. A parte l’antico precedente delle Ferrovie dello Stato istituite dal liberale Zanardelli, per superare le rendite di posizione dei tanti e inefficienti monopoli privati locali, tornando al tema e all’oggi il giurista Rodotà a Radio Radicale ha ricordato che l’acqua bene pubblico è un concetto sentito da sempre nei super-liberali Stati Uniti, dove si stanno sperimentando forme di proprietà e gestione vicine ai cittadini, e che anche a Berlino, dopo una privatizzazione che aveva portato soltanto aumenti di tariffe, la popolazione ha voluto con un referendum tornare al pubblico. Anche in Sicilia i cittadini protestano perché la privatizzazione degli acquedotti ha dato cattivi risultati. Sarà un paradosso, ma “i migliori acquedotti d’Italia”, quelli di Milano e provincia – ha aggiunto Rodotà – sono al cento per cento di proprietà comunale (Metropolitana Milanese) o comunque pubblica, mentre uno dei peggiori per perdite e inefficienze varie, quello di Roma (Acea), ha importanti azionisti privati, come Caltagirone e i francesi della Suez.

IL PROPRIETARIO DI UN POZZO OGGI DEVE PAGARE LA PROPRIA ACQUA ALLO STATO. Altro che scontro ideologico sui sacri princìpi liberisti, o mistica della “iniziativa privata” finalmente applicata agli acquedotti in Italia, dopo tanto statalismo! Questa è solo retorica, che nasconde secondi fini. Come mai, allora i tanti neo-liberisti – provenienti dalla Destra, ma anche dai Radicali (“corrente Luiss”) – non battono ciglio sulla legge che da alcuni anni obbliga il proprietario a denunciare pozzi e sorgenti esistenti sul proprio campo privato, ad installarvi a proprie spese costosi contatori, e poi a pagare allo Stato tutta l’acqua che consuma – la propria acqua, metro cubo per metro cubo – per usi casalinghi? Senza essere neanche sicuro della sua potabilità: deve spendere 200 euro per farla analizzare. Non crediamo proprio che in Gran Bretagna o Canada un cittadino che ha un pozzo non possa bere la propria acqua gratis. Eppure ora paghiamo allo Stato la pioggia che riceviamo, così avvalorando l’antico detto “Piove, Governo ladro”. Finiremo un giorno, con la medesima logica giuridica, per dover pagare anche l’aria che respiriamo? Ma su questa assurdità i nostri neo-liberisti di complemento tacciono, preferendo esercitarsi, anziché sulla tutela e sull’uso gratuito delle acque private, sulla “libertà” di eventuali speculazioni di investitori, lobbies e manager affaristi sull’acqua altrui, cioè quella pubblica! Un assurdo molto sospetto.

LA VERA CONCORRENZA? UN ACQUEDOTTO ALTERNATIVO IN PARALLELO! Certo, se ci sono investitori davvero liberi e capaci, desiderosi di quei modesti profitti e delle inevitabili grane sociali, si accomodino. Ma prima devono aver dato prova di efficienza e merito in altri campi. E poi dovrebbero, in molti casi, rifare le tubazioni e gli impianti. Se no, sarebbe troppo facile, senza toccare nulla dell’elemento più importante di questo strano e unico “bene pubblico” che è l’acqua di acquedotto, cioè la componente tecnica, attaccarsi solo alle tariffe, quelle che i consumatori sono costretti a pagare, come sicura e senza rischi fonte di ricavi. Bel “capitalismo” assistito, capitalismo facile “da tariffe pubbliche”. Sembra quasi una cosa socialista quella che vogliono i cosiddetti “privati” che amano poco il rischio e perciò si buttano sugli acquedotti pubblici… Senza contare, poi, che con loro ci sarebbe solo un’alternanza al vertice del potere gestionale, non una concorrenza reale. Cambiare gli uomini non basta. Perché, sia chiaro, ripetiamolo ancora una volta, nella gestione degli acquedotti storici, ciascuno diverso dagli altri, non ci può essere concorrenza vera, a meno che un folle costruisca una tubazione gemella in parallelo dando modo ai consumatori, solo commutando una manopola, di valutare le diverse qualità e i diversi prezzi dell’acqua.

E POI L’ACQUA PRIVATA C’E’ GIA’ : ED E’ QUELLA PIU’ BEVUTA. Non ci si accontenta degli acquedotti già in regime privatistico (come quello già detto dell’Acea di Roma, con la Suez e Caltagirone) e si vuole l’acqua davvero “privata”? Come si vede in una nostra minuziosa monografia, l’acqua privatizzata, e a prezzi di favore, quasi gratuita per i produttori, già c’è, e anzi è perfino troppa e inutile: quella in bottiglia. Con la sua concorrenza deformata, con la sua pubblicità scorretta e mistificatrice (si pensi all’assurdo di vantare come pregio un difetto, quello dell’acqua “oligominerale”, o alla boutade dell’acqua “povera di sodio”: tutte le acque da bere lo sono), con i suoi cartelli economici, i suoi oligopoli e monopoli, i suoi camion Tir che viaggiano in lungo e in largo sulle autostrade e strade locali trasportando l’inutile, in questo caso, elemento. Oltretutto in bottiglie di plastica. Quando verranno vietate per legge queste bottiglie di plastica colpevoli di grave e diffuso inquinamento?

NON E’ CHE POI BUSSERANNO ALLA CASSA? Perciò, chi è liberale e-o ecologista, sapendo bene che Regioni e Province, che piangono miseria strapagando però i propri uffici e il personale politico della peggiore Casta, sosterranno di “non avere soldi” e affideranno a consorzi di affaristi rotti ad ogni avventura e col pelo sullo stomaco la manutenzione e il restauro delle reti idriche italiane, sa che è possibile votare sì o no al prossimo doppio referendum sull’acqua del 12 e 13 giugno, sentendosi ugualmente in pace con la propria coscienza laico-liberale e ambientalista. A seconda che si sottolinei l’uno o l’altro dei contrapposti aspetti della complicata vicenda già accennati (si leggano i due articoli nei collegamenti seguenti). Ma, se non ideologicamente, forse avranno ragione politicamente quelli che voteranno sì, se non altro per dare una risposta al cinismo di una classe politica di una Destra finora anti-liberale e perfino anti-liberista, disinteressata proprio in tempi di crisi alla ricaduta del rincaro inevitabile dell’acqua sopra le fasce più deboli della popolazione, preoccupata solo di compiacere pochi industriali amici col miraggio di una speculazione affaristica fuori mercato, fuori concorrenza e fuori di ogni possibile controllo da parte dei consumatori. Il liberale Einaudi, quello delle Lezioni di politica sociale, si rivolta nella tomba. Infatti, al di là degli ideologismi, un mercato davvero libero, cioè ben regolato, può selezionare i gestori più efficienti, qualunque sia il proprietario nominale, pubblico o privato (Lucia Quaglino dell’Istituto Bruno Leoni).

DUE ARTICOLI CONTRAPPOSTI. Sul tema, perché i lettori si possano formare un’idea, segnalo due articoli contrapposti che si propongono, entrambi dal proprio punto di vista, di “sfatare i miti” legati al pubblico-privato degli acquedotti italiani. Il primo articolo, dell’ottimo sito economico La Voce, ispirato alla sinistra liberale (alcuni commentatori sono vicini alla corrente laica e riformista del PD), spiega che in realtà la legge attuale che si vorrebbe abrogare non vuole assolutamente “privatizzare”, ma semmai permettere di affidare gestione tecnica o amministrativa solo attraverso gare pubbliche. Cosa che prima non accadeva sempre. Il secondo articolo, fa notare che non è sempre vero che gli attuali acquedotti a gestione pubblica siano sempre inefficienti e colabrodo, e aggiunge che nei casi finora presentatisi la gestione privata ha significato bollette molto più salate.

(*) Visto l’uso mistificatorio delle parole e il poco studio delle idee che si fa oggi, qualcuno si è chiesto “come è possibile mettere insieme ecologia e idee liberali”. Rispondo: anzi, come è possibile pensare che siano in contrasto? Non è colpa di Adam Smith o Einaudi se qualche furbo còlto con le mani nel sacco mentre tenta di vendere il Colosseo o il Cervino, oppure mentre versa tetracloruro nei tombini, si difende dicendo di essere “liberale” o “liberista”. Ma nessun testo di liberalismo dice che bisogna inquinare l’ambiente, vendere la casa in cui si vive o il titolo di studio, e avviare la figlia alla prostituzione, solo perché esiste il mercato libero! Ecco un apposito blog, che solo il poco tempo e la pigrizia mi impediscono di aggiornare come vorrei. Ma per chiarirsi le idee bastano il Manifesto e l’Appello sul colonnino laterale.

JAZZ. Sopra il bel brano veloce di Charlie Parker 52 St. Theme, tratto da un disco, il video presenta un’interessante e rara serie di foto della New York povera e popolare degli anni 1935-38, che da sola vale il filmato di YouTube. Il periodo non è affatto quello dell’incisione, ma – si sa – i nostalgici accomunano tutto in un passato indeterminato… Peccato, piuttosto che il video è stato mal confezionato e si inceppa spesso.

AGGIORNATO IL 16 APRILE 2015

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02 giugno 2011

NATICHE. Ci sarà pure un motivo se sul sedere si concentra il desiderio maschile.

Mamma con sedere prominente Vi ricordate di quella volta che, grazie a un didietro definito "appariscente" dalle stupide croniste mondane, ma in realtà giudicato modesto dai veri intenditori, gli uomini, la sconosciuta e bruttina Philippa “Pippa” Middleton oscurò per qualche ora la filiforme e altrettanto anonima sorella Kate in un matrimonio kitsch a Londra? Se i fatti non ci sono, fotografi e giornalisti devono crearli. E così s’inventarono un sedere che non c’era. Ma allora che avrebbero scritto del sedere della mamma qui accanto?
      Fatto sta che il back side, il “lato b” o posteriore, da che mondo è mondo, contrariamente a una retorica perbenista e ipocrita, è il lato sessualmente più intrigante, oltreché appariscente, del sesso femminile. Che a causa del crescente sedentarismo e della mancanza di una selezione adeguata, è sempre più piatto e sfuggente. O tempora, o mores! Eppure, a detta di tutti (maschi, femmine, gay e trans) è spesso il vero oggetto del desiderio sessuale.
Ragazza con glutei sporgenti      E su questo punto ormai i gusti di noi moderni, per una reazione biologico-estetica alla piattezza generale e all’abbassamento dell’eros dovuto alla morale cristiana, sono diventati così esigenti che appare decisamente insufficiente, addirittura androgina, la classica armonia dei troppo lodati – nell’Antichità – glutei della Venere callipigia, cioè in greco antico “dalle belle (kali) natiche (pygos)”, conservata nel Museo Archeologico di Napoli (v. sotto). Natiche che soltanto inacidite e anafrodisiache professoresse di storia dell’arte, possono sostenere essere “il più bel sedere della statuaria classica”. A noi sembra piuttosto stretto e adolescenziale, se non vagamente ermafroditico. Ed essendo ben note le tendenze sessuali degli intellettuali greci, che sempre incerti tra donne e ragazzi impuberi, cioè bambini, praticavano la pedofilia di massa, c’è poco da stare tranquilli sull’interpretazione di certi sederi di marmo.
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      Insomma, non solo le donne di oggi, ma perfino la ex-callipigia Afrodite, mancano di sporgenze posteriori sicuramente femminili. Ma allora – si dirà – vanno bene solo i chiapponi in stile Grande Madre atavica oppure donna africana (african matako, sedere africano, lo chiamano in Kenia, e i maschi ne vanno pazzi), o peggio quelli grotteschi, patologici, delle donne Ottentotte dell’Ottocento? Per carità! Anche se erano e sono pur tuttavia una parossistica risposta ad una “domanda” antropologico-evolutiva. C’è una intelligenza della Natura, insomma nei glutei sporgenti. La povera Saartie, sudafricana della tribù dei Khoi-san fu esposta a Londra nel 1810 come un animale da baraccone, sollevando giustamente le proteste delle associazioni umanitarie. Era steatopigia, cioè affetta da un abnorme accumulo di grassi nelle natiche, tratto somatico molto apprezzato dai maschi della sua tribù.
dietroback-sporgente-body2      L’appiattimento del sedere, epidemia devastante in certe etnie dell’est europeo (p.es. nelle donne russe, ucraine, bulgare, balcaniche), tanto da poter bastare da sola, specialmente se la donna è giovane e magra, a indovinarne l’origine geografica, è pur sempre una conseguenza antropologica e sociale. A tal punto la razza caucasica, ovvero quella europide, anzi, la donna in generale nei Paesi in cui è stata a lungo relegata in ginecei o in cucina o abituata dalle madri a star sempre seduta, ha reso prima flaccidi e poi ha atrofizzato i muscoli glutei. A forza di non camminare e non eseguire più esercizi di gambe. E l’eventuale sostituzione dei muscoli col deposito di grasso, come in certe donne arabe e mediterranee, non serve certo a migliorare le cose dal punto di vista del di dietro.
camicia rossa occhiali sederebackretro (picc)      Certo, diranno i soliti maniaci non del sesso, ma delle classificazioni scientifiche, non si può proseguire nel discorso senza distinguere tra tre sotto-tipi di sedere appariscente e voluminoso:
1. Sedere sporgente, cioè aggettante all’indietro (v. gran parte delle immagini qui accluse). 2. Sedere largo, perché sostenuto da fianchi larghi (v. l’insegnante sexy alla lavagna). 3. Sedere grosso, per sviluppo o dei muscoli glutei o di Glutei sporgenti con pantalonidepositi di grasso. Tre categorie diversissime che hanno ciascuna amatori esigenti e pignoli. Per gli appassionati del tipo 1, p.es., il tipo 3 è un difetto, non un pregio, e anche il tipo 2 è molto discusso.
      Fatto sta che le curve di ogni genere, sia quelle laterali (la silhouette, dovuta per lo più allo scheletro e ai depositi di grasso), sia e soprattutto quelle antero-posteriori, mammelle e glutei, insomma i tanto bistrattati “tette e culo” (dalle donne borghesi nei salotti e sotto l’ombrellone), dovuti a sviluppo ormonale e muscolare, oltreché ai grassi, sono considerati oggi fuori norma.
dietro9      Prominenze che la moda politicamente corretta, oggi, impone di censurare, più di quanto la morale facesse un tempo con lo stesso organo sessuale femminile, la vulva.  Nell’Ottocento il poeta satirico Giuseppe Gioachino Belli in uno dei suoi sonetti in romanesco (“Pijjate e capate”, cioè “prendete e scegliete”) elencò ben 39 modi di definire il sedere tra i popolani di Roma, da mela a culiseo, da tonno a tafanario. Le caste monache, per esempio – lo scrive lo stesso Belli in nota – lo chiamavano tra di loro “il signorino”.          
       Era forse motivo di scandalo nella buona società? Nient’affatto, gli antichi che noi riteniamo prude e provinciali erano molto più liberi di noi su certe cose. Anzi, quando il Belli recitava i suoi sonetti all’Accademia Tiberina con aria fintamente seria e compunta, monsignori e cardinali suoi amici  erano i primi a sganasciarsi dalle risate. Ma già, voi direte, i preti hanno sempre avuto un debole per il sedere. 
Venere Callipigia Museo Napoli      Invece, un secolo e mezzo più tardi, non appena Tinto Brass nei suoi film fa l'apologia del "culo", ecco che tutti si stracciano le vesti per lo scandalo e l'indignazione ipocrita: che volgarità, che fissazione maniacale, che regista anormale! E i critici sono stati a lungo incerti se collocare il povero Tinto in un lupanare di Pompei o sul lettino di Freud. Eppure Brass in fondo aveva ragione sul piano antropologico e culturale, sì, culturale: è il “culo”, prima ancora del cuore o della “fica”, l’origine del sesso, cioè dell’amore. Del resto, è l’unico organo sessuale visibile della donna. Non saranno, semmai, i negatori, i censori, a essere i veri maniaci?
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      Già il fatto che non esista un nome colto, accettato, letterario per dirlo, dice tutto della censura linguistica e dunque dell’ingiustizia della Storia ai danni dell’anatomia. In italiano, per esempio, culo non è un termine colto, utilizzabile nei temi di scuola, negli articoli di giornale, nelle leggi, nelle relazioni ufficiali o negli studi scientifici, ma è ovviamente presente come termine familiare intimo, dialettale, volgare. Tuttora, in moltissime famiglie – per non parlare dei salotti – è considerato una parolaccia, che nessuno, tantomeno i bambini, dovrebbero mai dire.
sederejeans      Come dirlo, perciò? La diversione linguistica non c’è solo nel romanesco del Belli, ma anche nella lingua italiana, e un po’ in ogni lingua. Bisogna andare alle espressioni indirette e analogiche, come l’ipocrita sedere, che in origine era solo un verbo (e se il culo non è seduto?), oppure natiche o glutei (che però sono soltanto una parte del tutto). E men che meno serve il dottorale ano, che infatti è una parte ancora più piccola del “culo”. Altrimenti? La piccola borghesia vergognosa inventò tanti modi ridicoli, obliqui, elusivi ed allusivi per dire e non dire “culo”, come il posteriore, il preterito, il deretano, il di dietro ecc.
      Sull’argomento, perciò, non sono le stiliste di moda ad avere l’ultima parola, ma gli studiosi. Il sedere, infatti, dà ragione alla biologia, alle scienze della Natura, agli Antichi, e perfino a Tinto Brass. Insomma, non solo la modella sexy e una bella donna in generale è “più intelligente” dell’acida prof di greco che la critica, come dimostro provocatoriamente in un articolo, ma tra modelle, attrici porno e belle donne, quelle appartenenti alla categoria dei “glutei formosi” ha ancora più ragione in senso antropologico.
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Jennifer Lopez back-dietro-sedere-sporgente-vestita      E, a proposito di scienza, ricordiamo che il sedere prominente delle donne è formato sia dai muscoli glutei, che possono essere ingrossati anche con l’esercizio fisico specializzato (salire le scale, camminare in montagna, steps), sia dagli adipociti, cellule adipose ricche di acidi grassi che gli ormoni femminili per eccellenza, gli estrogeni, accumulano soprattutto nella zona glutei e cosce. La funzione biologica? Meccanica (protezione dagli urti) e di riserva energetica. Ma a posteriori – è il caso di dirlo – possiamo ritenere che deve essersi trattato anche del frutto di una sapiente selezione naturale estetica a fini riproduttivi. Le femmine col sedere più appariscente, attirando fin da lontano il maschio, si sono assicurate più frequenti rapporti sessuali e quindi la propagazione della specie. Insomma, un’astuzia della Natura. Questo è il “biotipo ginoide”, contrapposto al “biotipo androide”, ovvero maschile, caratterizzato dall’accumulo di adipociti nel ventre e nella parte alta del corpo.
sederetyg      Ma la ricerca medica ha provato che il grasso delle natiche tipico delle donne è protettivo, a differenza di quello del ventre (maschile). Come se non bastasse, le donne col sedere grosso, conferma ora con maggiori dettagli uno studio su 16 mila donne di K. Manolopoulos e altri, dell’Università di Oxford – su cui il sito britannico BBC News, a differenza di siti spagnoli o italiani, non fa il minimo humour – non solo sono più sane, per la prevalenza media più elevata di acidi grassi Omega-3, cardioprotettivi e catalizzatori dello sviluppo cerebrale, ma anche più intelligenti. Saartjie Baartman ottentotta 1810 circaHanno meno colesterolo e glucosio nel sangue, meno rischio di diabete e infarti. Infatti, spiega l’autore: «Avere un sedere grosso favorisce nel corpo femminile i livelli di leptina, che è un ormone responsabile della regolazione del peso, e la dinopectina, un ormone con caratteristiche anti-infiammatorie, protettive dei vasi e anti-diabetiche. Il tessuto adiposo dei glutei intrappola particelle grasse nocive e previene le malattie cardiovascolari». Ecco perché le donne col “culone” sono più resistenti alle grandi malattie croniche e vivono più a lungo. Inutile dire che nell’apprendere la notizia alla tv le donne brasiliane, famose al mondo per l’imponenza dei glutei, sono esplose in un urlo collettivo di gioia.
Angel-Lola-Luv (Angel-Fershgenet) dietro-back-sedere      Insomma, ci dispiace per i contadini e i fabbricanti di scarponi, ma oggi come ieri hanno ragione le donne (che infatti hanno mandato avanti la casa per svariati millenni, mentre i maschi “perdevano tempo” a fondare città e imperi, a filosofare e guerreggiare), e il vecchio proverbio va modificato così: “natiche grosse, cervello fino”.

      Tornando al significato psico-evolutivo delle natiche, ecco un mio articolo che ho riscoperto in archivio, pubblicato nel lontano 1996 sulla rivista di divulgazione scientifica Teknos. Sembra attuale, no?


PARTI DEL CORPO CHE SCENDONO E SALGONO: IL CUORE E IL SEDERE


Oggetto del desiderio? Macché, è “utilità biologica”. Tinto Brass non solo non è un maniaco, ma è antropologicamente corretto. Secondo gli scienziati, infatti, i glutei femminili avrebbero la funzione evolutiva primaria di indirizzare, proprio come una bussola, la sessualità dell’uomo. E così tutto si spiega: anche la poetica finzione del “cuore, simbolo dell’amore” e perfino la metafora religiosa del “sacro cuore” di Gesù. Chi l’avrebbe detto?

Chi di noi, almeno nei Paesi latini, credeva di sapere tutto sul rapporto tra i sessi e sul corteggiamento deve ricredersi. Le ultime scoperte scientifiche di antropologi e psicologi del comportamento riconducono l'incontro uomo-donna a precise esigenze biologiche piuttosto che alla pulsione del piacere. Lo scienziato tedesco Karl Grammer ha studiato migliaia di maschi e femmine, sia dell'uomo sia delle scimmie antropomorfe, per concludere che il maschio a prima vista osserva con molto interesse l'ampiezza del bacino e i glutei della femmina, al fine di garantirsi una buona "riproduttrice". Insomma, uno sguardo che sembra un po' troppo basso, ma in realtà è saggiamente lungimirante.
       Non per caso la femmina dello scimpanzé in calore presenta posteriormente a mo' di segnaletica un'appariscente tumefazione rosa che attira il maschio. Il richiamo sessuale atavico per i maschi delle specie dei primati, e anche dell’uomo, è quindi il sedere femminile. Il medico e antropologo Desmond Morris ha scoperto, infatti, che dai tondeggianti glutei della donna trae origine e forma il simbolo stesso dell’amore: il cuore.
      Che altro è il cuore, almeno quello “tutte curve” rappresentato in forma stilizzata, se non il deretano capovolto d’una giovane donna, così come appunto lo vedevano i primi uomini preistorici che praticavano la tecnica sessuale more pecudum, cioè “come le pecore”, ovvero dal posteriore? Insomma, è anche poetico e adattissimo alla retorica femminile: visto da dietro ogni sedere di donna sembra un cuore, sì ma rovesciato, con la punta in sù. Come prendersela, allora, col regista Tinto Brass e con le sue maniacali fissazioni sul sedere?

       In quanto alle femmine, sia dell'Homo sapiens (duemila studentesse di medicina degli USA, volontarie) sia delle scimmie bonobo, simili agli scimpanzé, si è scoperto che, al contrario, guardano il maschio negli occhi, sembra per sondarne la forza emotiva (a scopo riproduttivo) e la qualità di leader o di livello sociale superiore (per garantire il cibo ai piccoli). Le femmine Bonobo, proprio come certe giovani donne, praticano il sesso a una condizione: che il maschio offra loro il suo cibo, prima, durante e dopo il rapporto. Non sarà certo politically correct, ma a noi sembra un’analogia molto stringente: non nacque così la più antica e nobile “professione” del mondo? (Nico Valerio, Teknos 1996)

Amore secondo le donne e gli uomini      Questo era l'articolo di tanti anni fa su Teknos. Ma per fortuna, l'antropologo Desmond Morris è stato letto anche da alcuni disegnatori umoristi, come quello che ha creato la vignetta psicologica e di costume qui accanto.  E dello strano “cuore” capovolto ha capito tutto anche la famosa ditta di latrine chimiche mobili Sebach. Con la scusa dell’ironia e dell’humour, e quindi della riconoscibilità del marchio tra i giovani (già è oggetto di culto), ne ha fatto addirittura il proprio simbolo, e rispettando le giuste proporzioni delle natiche femminili. Né assurdamente romantico, né esplicitamente sessuale, solo escretorio. E’ vero, tra tanto straparlare avevamo dimenticato la terza, fondamentale, fisiologica funzione del “cuore capovolto”!
sebach      Infine, anche i sederi maschili hanno acquistato nel tempo, per analogia con quelli femminili, una connotazione sensuale, ma con sottintesi aberranti, vista la ben diversa anatomia sessuale. Tant’è vero che il periodo di massima considerazione del “lato B” virile, a vedere la statuaria che ci è pervenuta, è proprio la Grecia antica dove la pederastia, cioè l'amore di uomini maturi per giovinetti impuberi, era la regola,  e dove – come abbiamo detto sopra – perfino i glutei di una Dea sembrano essere scolpiti nel marmo avendo a modello i maschi. Ad ogni modo, anche una breve rassegna fotografica, se il fotografo maniacalmente si apposta non davanti ma dietro alle statue, dà un’idea di come le natiche, maschili o femminili che siano, abbiano interessato i popoli antichi, fino al punto da spingere gli scultori a indulgere al dettaglio realistico pur di avere successo.

IMMAGINI. Dalla “normale” mamma con bambino dalle natiche strepitose (lei, non lui, poverino) alla statua della Afrodite callipigia (Museo Archeologico di Napoli), da Jennifer Lopez, la bruttina con un vestito aderente che mette sapientemente in mostra il posteriore, alla “Donna ottentotta”, dipinto a olio del 1890 ispirato a Saartie Baartman (Torino), numerosi esempi di posteriore super-sviluppato o mostrato come vero oggetto del desiderio ovvero dell’amore, cioè del cuore (rovesciato), secondo la intrigante teoria dell’antropologo Desmond Morris. E forse era laureato in antropologia il disegnatore della ditta di latrine chimiche mobili che ha inventato quel logo davvero così ironico. Infine, la vignetta umoristica che illustra senza parole la diversa concezione dell’amore presso le donne e gli uomini, semplicemente capovolgendo la medesima parte simbolica del corpo.

AGGIORNATO IL 14 GIUGNO 2017

JAZZ. La cantante Billie Holiday in un brano tratto da un disco Brunswick inciso dall’orchestra di Teddy Wilson: una bella interpretazione della classica song These Foolish Things (3.20). La formazione: Jonah Jones, tp / Johnny Hodges, alto sax / Harry Carney, cl, barit. sax / Teddy Wilson, p / Lawrence Lucie, guit / John Kirby, bass / Cozy Cole, drums / Billie Holiday, vocal. New York, June 30, 1936.

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