30 settembre 2012

JAZZ. Il boom dei festival all’italiana su Repubblica: le piazze e il conformismo.

Perugia Umbria jazz

Ecco la famosa, storica, inchiesta sul jazz pubblicata da Repubblica. Che osò dire – ed era stato il giornale più conformistico in questo campo – le amare verità sul “Re Nudo” del jazz all’italiana che allora non si potevano scrivere neanche sui giornaletti alternativi. Questo proprio mentre il fenomeno era in atto. Un miracolo o un colpo di mano?
Ancor oggi non so spiegarmi come mai l’accettarono e pubblicarono: andava contro tutti i luoghi comuni e gli stereotipi snob e sinistresi della Repubblica. Ma forse la risposta sta in questo: nell’abilissima confezione. Lo ammetto, sapendo su quale testata stavo scrivendo, mi ero preoccupato di restringere ciascuno dei cinque-sei concetti indigesti in pochissime parole, ben scelte, e di annegarli furbamente in un contesto apparentemente “di costume”, quindi considerato erroneamente morbido, mondano ed elegante, come quello allora usato da molti giornalisti nei salotti. Un trucco psico-linguistico che ho usato spesso per vincere le Redazioni, che più che leggere controllano il tono stilistico degli articoli partendo dai capoversi, e dando molta importanza al “peso” (in numero di parole) dei concetti espressi. A quei tempi, sia chiaro: oggi neanche leggono.
Ma, quel che è più strano, sorpresa nella sorpresa, piacque moltissimo ai redattori degli spettacoli, che vennero a complimentarsi. Uno di loro disse anche, come togliendosi un peso: «Finalmente!». Segno che c’era già una fronda culturale interna, come dire, di tipo liberal-radicale, che non ne poteva più delle “veline” che cadevano dall’alto; della costruzione ipocrita del consenso attraverso i concerti e i festival; del conformismo della musica perennemente di “avanguardia”; dell’uso politico ed elettorale della cultura (musica e jazz in particolare); delle incensature d’obbligo di finti critici – in realtà agit prop – a musicisti di scarso valore ma “impegnati”, raccomandati, protetti dai Festival dell’Unità, che dal palco salutavano a pugno chiuso; della retorica populistica della “musica in piazza” servita gratis – cioè a spese di tutti – da Regioni e Comuni a pochi privilegiati distratti, rumorosi e ignoranti. Una piazza per cui il jazz era solo un sottofondo.
Come ci riuscii? Intanto per gli espedienti semantici che ho detto. Ma anche per una serie di circostanze favorevoli. Intanto l’inchiesta era formalmente per le pagine del settore “Week End” e quindi la guida in appendice ai club e alle scuole delle varie città (che qui non ripubblico) era trainante. Poi, ancora, ero quello che aveva già pubblicato sull’Espresso, prestigioso giornale fratello, un’inchiesta sul jazz ancora più ampia e piccante che aveva fatto epoca e aperto gli occhi a tutti. Infine, ero già uno stimato collaboratore della Repubblica su altri temi (salute, alimentazione ecc.) e dunque si fidavano: non avrei mai superato un certo limite. Così architettai il piano fin nei dettagli, approfittando di un’assenza del critico ufficiale, Castaldo, poco interessato al jazz e piuttosto innamorato di certe musiche che io giudicavo pop o “fusion”. Se l’avesse saputo, avrebbe messo il veto. Strano, piuttosto, che il Capo-servizio spettacoli abbia approvato in assenza del critico del settore: succede molto di rado nei giornali, a meno che il critico non sia mal visto dalla redazione. Si vede che il Capo-servizio non ne poteva più dell’ipocrita mondo del jazz tutto dipinto di quel finto rosa-rosso che vigeva allora, oppure che inchieste di vasto respiro e anticonformistiche il critico ufficiale non le proponeva mai. Comunque, fu un colpaccio fortunato e ben condotto.
Per anni, ripensando a questa inchiesta conquistata con un colpo di mano e a quella precedente sull’Espresso, ho goduto intensamente per il violento disappunto che avevano procurato non solo a critici-organizzatori-musicisti integrati nel sistema del jazz d’allora, ma per l’improvviso spiraglio di luce che aveva illuminato le menti di molti appassionati di jazz intorpidite dal buio della Ragione e della Storia, quelli per cui il jazz è “ideologia” rivoluzionaria o “comunista”, e quindi è solo protesta o avanguardia (e perciò il mediocre Archie Shepp o il cacofonico trio SOS di Surman-Osborne-Skidmore sarebbero di molto superiori alla big band del grande Fletcher Henderson), oppure la storia del jazz comincia da Ornette Coleman o Coltrane. Ma ecco la famosa inchiesta:

Umbria Jazz Perugia corso Vannucci luglio 1975 (arch. UJ) SEMPRE VIVO IL BOOM DELLE JAM SESSION MADE IN ITALY
LA GRANDE GIUNGLA DEL JAZZ ALL’ITALIANA
Nico Valerio, Repubblica, 12 novembre 1978
In Europa, in America, sono sbalorditi e un po’ perplessi. Possibile che ora l’Italia sia anche la patria del jazz? Nell’ex Bel Paese della lirica, dopo sette anni di crescita dell’ascolto della musica afro-americana, col proliferare di concerti, festival, club, scuole, gruppi, dischi, articoli, rubriche radio e tv, libri e audiovisivi di jazz, ormai non si parla più di “curiosità” o di “scoperta”.

È vero, siamo i primi in Europa per numero di festival. Quest’anno ne abbiamo avuti una ventina, buoni e meno buoni, culturali (pochi) e turistici (molti). Ora ci si mette anche la fioritura, a decine, delle libere scuole di quartiere, dove per poche lire ti mettono in mano uno strumento e ti spiegano tutto, dall’improvvisazione alla poetica di Coltrane. Una catena di montaggio dove si entra spettatori da piccionaia e si esce protagonisti patentati di rischiose jam-session. Che pretendere di più? Quanto basta per creare, sia pure nei ristretti confini del jazz, un vero e proprio “caso Italia”.

Il jazz ora è più vicino. Anche per un vacanziere incallito, per un globe-trotter con la sindrome “on the road” in corpo, la musica di Parker e di Coleman è sempre dietro l’angolo.

Uno si mette in macchina il fine settimana, poniamo, per vedere le ville venete o il Chianti. Be’, è sicuro di trovare un club, un concerto, un festivalino, un seminario, un corso autogestito, una scuola di jazz aperta magari proprio il sabato. Nelle città di provincia e nei quartieri gli appassionati s’incontrano nel più fornito negozio di dischi jazz e là, come carbonari, commentano le novità o si accordano per epiche imprese musical-contestative. Fin qui niente di strano, succede anche all’estero.

Quello che invece all’estero non capiscono è come mai, proprio da noi, il jazz si avvii a diventare un vero e proprio servizio sociale gratuito, un bene di consumo popolare pagato dallo stato, dalle regioni, dai comuni. Questo in un’Italia carente di auditori, biblioteche, scuole, ospedali. Immaginate Bengodi, o il Villaggio dei balocchi di Collodi: solo che invece di papparsi la rituale casa di torrone e cioccolato, il ragazzo viziato di casa nostra – caso unico al mondo – fa epiche abbuffate, a sbafo, di hard-bop e di blues, con una spolveratina d’avanguardia nera e bianca a piacere, come fosse vaniglia.

Musica difficile, il jazz è oggi in casa nostra molto più “parlato” e discusso che suonato e capito: o colonna sonora per gli incontri sballati in piazza, o alibi gratuito d’un finto impegno culturale. Un pot-pourri di snobismo, sottocultura e motivazioni politiche.

Lontani i tempi eroici delle cantine, il jazz, anzi un certo jazz, è proposto al nuovo pubblico in modo a dir poco offensivo: ambienti squallidi e antiacustici come stadi e palasport, spazi limitati, confusione, assenza di proposte culturali, perfino scarso divertimento. Il tutto condito con lo slogan demagogico della “musica gratis”. Tra gli show d’un Hampton esportato dall’impresario Wein, e l’ultra-avanguardia noiosissima d’un Coxhill, spesso non esiste una terza via culturalmente dignitosa e adatta a tutti.

E poi oggi il jazz è nel “sistema”. Dalla Filarmonica al Festival dell’Unità, fa parte del cerimoniale ufficiale, della tradizione delle feste paesane, retoriche o populiste, da rispettare comunque. Stonati e ben pagati musicanti di quartiere, “critici” d’occasione (chi ha studio d’avvocato, chi fa il barman, chi il grafico) e tutta la colorita corte dei miracoli d’ogni fiera, lo suonano, lo commentano, l’ascoltano distrattamente, ma sempre con l’occhio umido, proprio come un tempo i “veci” ascoltavano “Il Piave” e “Fratelli d’Italia”.
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UN CALEIDOSCOPIO DI TENDENZE DOPO LE NOSTALGIE DEL PASSATO
Ritorna lo stile big band
E il jazz italiano? Spentosi – ma spesso è una sopravvivenza penosa, quasi una morte apparente – il revival delle bande di amatori, col loro feticismo per i celebri assoli degli anni ‘20 e ‘30, il jazz made in Italy si ispira a Parker, il sassofonista che rivoluzionò i modi e la concezione della musica afro-americana, ma anche a Coltrane, a Coleman e agli eredi inquieti del free. Diversamente da altri paesi europei, da noi non è coltivato un vero “stile nazionale”. Le più diverse inclinazioni ed esperienze, dal blues al bop, al cool, al free e al post-free, convivono gomito a gomito, civilmente. Insomma, ognuno a modo suo: tot capita tot jazz. Tanto per non smentire il nostro sfrenato individualismo.

Una via maestra (mainstream, in gergo) molto frequentata è il nuovo hard-bop, una musica corposa e dinamica, sorretta da una ritmica potente, che conserva un tocco, un aroma appena, di “musica libera”. Qualche nome? Ci sono un po’ tutti. Su un versante i soliti Basso, Piana, Fanni, D’Andrea, ex imitatori, solisti e uomini di fila della orchestra RAI, in genere professionisti e routinier impeccabili, incapaci però di colpi d’ala, di geniali guizzi creativi. Sul versante opposto il quartetto di Giammarco e di Giovanni Tommaso, il pianista Pierannunzi, l’ottetto del Sax Machine di Biriaco, forse la novità più strepitosa della stagione, e la big band Grande Elenco Musicisti di Vittorini. Ma anche qui tutto appare studiato e un tantino accademico.
Quest’anno comunque “va molto” il recupero modernizzante, spesso osé, dello stile big band: sezioni bilanciate, sax duri, pochi impasti timbrici, ritmica parossistica. Certo, Fletcher Henderson, il capo-orchestra nero che mise a punto per primo lo stile “grande orchestra”, si rivolta nella tomba, ma il risultato è un jazz eccitante che piace molto ai giovani.

Qualche sorpresa viene dagli ex-gasliniani, dai quali tutti si aspettano che suonino, agiscano, parlino come dei perfetti “negri d’Europa”. Dopo aver fatto di tutto per apparire neri sul serio, enfatizzando gli aspetti esteriori d’una negritudine di riporto, un po’ cinematografica e Kitsch, questi giovani “maledetti” del jazz italiano sembrano rinunciare all’equazione retorica “paisà, negro d’Europa”. Eppure di una negritudine nostrana, fatta di rabbia meridionale, vigore mediterraneo e recupero del popolare, si era parlato a proposito dei giovani Urbani, Scascitelli, Della Grotta & C. Se non l’idea fissa del folklorismo, una moda, malgrado tutto, di segno ambiguo e talora reazionaria, almeno l’uso di temi e inflessioni locali potrebbe rivelarsi, accanto alla scoperta cantabilità, un dato di diversificazione del nuovo jazz italiano. I migliori, ad ogni modo, sono i fuori schema, gli outsiders. Tra questi il pianista Gaslini, ottimo press-agent di se stesso, è un efficace galvanizzatore di gruppi. Il suo sestetto, con Bedori e Trovesi ai saxes, distilla una sintesi colta di moduli già etichettati da tempo: il jazz “di protesta”, la scuola europea, la musica da film. Guido Manusardi (piano) e Enrico Rava (tromba) sono riconosciuti i jazzisti più maturi nei rispettivi strumenti.

E le donne? Ci sono, eccome. Nell’ultimissima leva non mancano pianiste, flautiste, bassiste, sassofoniste. Chissà perché, c’è penuria di batterista, se no potrebbero formarsi diversi gruppi di sole donne. Poche però, a parte la Scascitelli, hanno la grinta d’una Barbara Thompson o la cultura d’una Carla Bley.
L’avanguardia sembrava svanita nel nulla, ma riaffiora quando non te l’aspetti. In Strutture di supporto, con Joseph al piano e Colombo al sax, già si aprono interessanti spazi di ricerca timbrica e armonica. Da qualche tempo segna il passo invece il lirico ma provocatorio Mazzon (tromba). Specie al nord poi i collettivi dal nome austero e burocratico (vanno di moda quelli del tipo di “Organico di musica creativa e improvvisata” del bravo Rusconi) lasciando intendere di aver fatto lunghi soggiorni a Darmstadt, hanno imparato a contestare la parola, non la musica, “jazz” da Shepp, teorico della musica libera al tempo in cui andava di moda il “dashiki”, la colorata tunica africana. Ora però Shepp veste sempre in cravatta e doppiopetto fumé, e per di più cita Ellington.
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Destra e sinistra in un mondo di note
Anche per i jazzisti, da noi, c’è il “sei politico”? Così sembra, a leggere le recensioni, ottimistiche e spesso incensatorie, dei concerti e dei festival. La stroncatura, poi, è sempre più rara, forse perché la critica, per motivi che sarebbe scomodo ricordare, è più attenta alle intenzioni dei musicisti che alla loro musica. Una nota di colore, tipica del jazz italiano, è infatti la “dichiarazione d’intenti” che il musicista, impegnato o no, proclama dal palco prima del concerto, per spiegare (caso mai le note non fossero sufficienti) “da che parte sta”.

Si verificano perciò situazioni paradossali. Il jazzista di sinistra conclamata che finisce, a furia di recuperi del folk, per fare una musichetta banale e orecchiabile, e quindi linguisticamente “di destra” (per esempio il Trio Liguori e qualche gruppo di “blues” paesano, tipo Treves Band). Oppure il disimpegnato, ritenuto a torto qualunquista, che propone un jazz d’avanguardia problematico e ricco di spessore, e quindi linguisticamente “di sinistra” (Schiaffini, Joseph ecc.). Sono, però, casi eccezionali.

Di solito l’ideologia musicale del jazzista italiano corrisponde al jazz realmente prodotto. Tanto che uno studioso del linguaggio, un Umberto Eco in vena di “divertimenti intelligenti”, potrebbe arrischiare una mappa politico-musicale semi-seria, un parlamentino ideale del jazz nostrano, con tanto di sinistra, centro e destra, extraparlamentari e, perché no, autonomi.

Il gioco non sarebbe difficile. Patruno, Loffredo, la Roman e la Bovisa, nostalgici che credono nei “valori” del dixieland, li mettiamo all’estrema destra. Al centro-destra il jazz di Rosa: conservatore ma con garbo ed eleganza. Tra i tecnocrati e confindustriali Basso, G. Tommaso, Piana ecc.: strumentisti efficienti legatissimi al “sistema”. Al centro-sinistra Intra, Giammarco, Pierannunzi, Sax Machine, Vittorini ecc.: un nuovo linguaggio purché tutto resti come prima. E alla sinistra storica? Ma Gaslini, Schiano, B. Tommaso, diamine: il recupero popolare e i legami con le masse. Tra gli extraparlamentari Rusconi, Trovesi, Centazzo, Colombo e compagni: sempre in cerca di formule nuove, arrischiate. Tra gli “indiani” e i radicali Urbani, Scascitelli e Della Grotta, e giù giù fino ai nuovissimi: “diversi”, caratteriali, imprevedibili.

Ma il divertissement intellettuale durerebbe poco. Chi ci assicura che il jazzista contestatore di oggi, conquistato il suo pubblico, pubblicato il suo disco e ritagliatosi il suo mercato, non diventi un jazzista conformista domani?

NICO VALERIO

P.S. L’inchiesta si concludeva con due appendici, allora molto importanti, sul “turismo jazzistico”: Dove ascoltarlo (cioè i club, regione per regione) e Dove impararlo (scuole e seminari, regione per regione). Oggi sarebbero di nessun interesse: nomi, riferimenti, indirizzi e telefoni sono tutti cambiati.

IMMAGINI. Non riproduco, ovviamente, le immagini aggiunte dalla redazione della Repubblica, irriproducibili.


AGGIORNATO IL 21 NOVEMBRE 2014

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10 settembre 2012

ATLETI SENZA ETÀ. Quell’intelligenza superiore che governa la mente e il corpo


Vittorio Colò salto triplo record mondiale veterani a 92 anni
Per i giornalisti, bombardati ogni giorno da centinaia di eventi da trasformare in pochi secondi in “notizie”, un evento vale l’altro, e la notizia così creata durerà lo spazio d’un mattino anche nella loro mente. Domani altre notizie la cancelleranno. Eppure anche chi per questo meccanismo cinico e perverso non può avere vere “idee” personali, altrimenti smetterebbero di fare il giornalista, ha capito la naturalità estrema - altro che stranezza o mostruosità! - della vita di Giuseppe Ottaviani (v. ultima foto) che a 100 anni di età, ha vinto l'ennesima medaglia d'oro mondiale (della sua fascia di età, s'intende: gli ultra-seniores, i veterani): quella del salto in lungo.
      E ancora, Vittorio Colò, atleta e sportivo fino a 95 anni suonati, ancora uomo attivo ma non più sportivo a 101 anni, tanto che pesandogli ormai in modo insopportabile la vita “da vecchio”, che è una non-vita, ha dovuto suicidarsi.
      A Novara l'ottantenne Benito Bertaggia ha battuto il primato italiano sui 300 metri, dopo aver superato il record dei 150 metri.
      Ma perché Ottaviani, Colò, Bertaggia e altri sono e resteranno dei simboli? Non perché il primo ha fatto la II Guerra Mondiale, ha iniziato a fare sport a 70 anni e ha vinto decine di medaglie; e neanche perché il secondo a 92 anni ha vinto quattro titoli mondiali nella categoria “veterani” (salto in lungo, salto triplo, velocità 60 m., salto in alto); ma perché svergognano la pigrizia e il fatalismo dell’uomo della strada, specialmente in Italia, smentendo lo stereotipo dell'anziano iperprotetto e buono a nulla, con tutti gli stupidi luoghi comuni di psicologi, sociologi, medici di base e gerontologi che danno per scontato il regime di vita innaturale dell’uomo fondato sul sedentarismo, che è l’alibi di atteggiarsi ad animali “intelligenti”  (“Io sono un lavoratore intellettuale, sai, mica un bracciante agricolo: faccio il funzionario al Ministero dei Beni Culturali!”) di chi intelligente non è. Il solito errore dei medici e degli altri “lavoratori intellettuali”: ragionare ottusamente - scusate l’ossimoro - solo in base alle statistiche riferite alle fasce d'età, che altro non sono che fotografie acritiche di quello che accade nella realtà, una realtà però in cui tutti sbagliano. Tu sei anziano, anzi nella maturità? Bene, “è normale” che tu non debba far nulla tranne che occuparti di nipotini o annaffiare le piante in giardino, che tu sia sedentario, che tu sia malato.
      Insomma, il vecchio che corre, o meglio l’uomo che correndo diventa a poco a poco vecchio, non è un “mostro di Natura”, ma la Natura stessa. Non è l’eccezione che conferma la regola, ma la regola. Colò, dunque, è stato un testimone, un grande educatore del Genere Umano, che lo volesse o no.

Ciclista centenario Robert Marchand 2012 ALTRI SPORTIVI CENTENARI. Gli anziani, si sa, hanno minori prestazioni, ma questo riguarda molto meno gli anziani che fanno esercizio. Del resto, si comincia ad essere “anziani” fin dai 30 anni, quando inizia a decrescere la gittata sistolica del cuore di 1 per cento all’anno. Ma la tarda età, in tempi di stupido o necessitato sedentarismo generale, è paradossalmente l’età in cui lo sport può davvero salvare la vita e offrire anche una grande motivazione psicologica, combattendo la depressione. E dunque conoscendo rischi e decadenza di organi e funzioni, è l’intelligenza stessa che dovrebbe imporre l’esercizio fisico nella vecchiaia (v. articolo).
      E in parecchi sport aerobici i centenari vanno “bene”, purché col fisico asciutto, debitamente allenati e dal perfetto stile di vita, compresa l’alimentazione. Certo, i pochi vecchissimi sono paradossalmente “favoriti” dalla scarsa concorrenza dei coetanei (nello sport si va a categorie per fasce di età), non vanno fortissimo, e devono stare attenti a non superare un certo numero di pulsazioni cardiache (p.es. 130/min nel caso del centenario ciclista di cui si parla), ma è già un miracolo – in un mondo in cui tutti, anche i ventenni e i trentenni, sono sedentari e incapaci di qualsiasi esercizio – che portino a compimento una gara e anzi facciano corse a ripetizione. Parliamo del ciclista francese Robert Marchand, dal fisico microscopico (151 cm), il che è un ulteriore vantaggio, ma pur sempre con 100 anni di età, che è tornato con successo a gareggiare e vincere in pista, cosa che aveva fatto l’ultima volta a 80 anni. Ha battuto il suo record anche a 105 anni.
Podista maratoneta Fauja Singh indiano sikh vegetariano      E nella corsa a piedi, addirittura nella classica maratona di 42 chilometri, c’è poi l’altro fenomeno dell’indiano sikh e vegetariano Fauja Singh, nato nel 1911, che ha gareggiato nelle maratone competitive fino a 101 anni di età (poi ha promesso solo “corsette” simboliche per beneficienza, perché dice di “cominciare ad accusare gli anni”). Anche lui va “piano” (una maratona in 6 ore circa) ma le gare le porta a compimento. Pizzolato, ex campione che ancora corre tra i cinquantenni, sostiene che Singh più che maratoneta è da considerarsi un camminatore veloce (in media 11 km/h circa). E ci sono parecchi corridori della maratona di New York e di altre maratone, come ha notato nel 2010 il New York Times, che in realtà non staccano mai i piedi da terra, come invece dovrebbe fare un vero maratoneta. E va bene, sottigliezze tecniche. Ma chiunque di noi cammini in città in modo spedito (8 km/h) sa che vuol dire fare quei tre km/h in più: che impegno e quanto sudore! Figuriamoci per un centenario.
      Un'intelligenza superiore, naturistica, dunque, quella che governa il corpo, cioè la mente che governa il corpo (ecco perché molti intellettuali, vecchi anzitempo a trent'anni, senza parlare della quasi totalità delle persone, che non sono né intellettuali né sportivi, sono biologicamente stupidi). Onore ai “geni” Vittorio Colò, Robert Marchand e Fauja Singh, che dimostrando quello che solo pochi veri saggi sanno (che cioè si può essere vecchi a 20 anni, la anormalissima “norma”, e giovani a 100, l'eccezione) hanno dimostrato semplicemente di saper vivere. E anche morire, come è accaduto a Colò – e non per morte naturale, ma per suicidio, per giunta – a 101 anni, dopo aver gareggiato fino a 95.
      E anche in montagna eccellono gli anziani, favoriti dal fatto che la lunga camminata lenta e regolare si addice al loro fisico e al corpo umano in generale. In qualunque sede del Club Alpino Italiano (CAI) vi racconteranno aneddoti sui vecchi iscritti ancora in attività. Se schivano gli acciacchi, gli anziani possono essere grandi camminatori. E, anzi, le continue camminate aiutano a prevenire le malattie, purché con buon allenamento e a velocità non eccessiva, per non produrre radicali liberi che invecchiano. Nel Trentino sono diventati famosi i “super-nonni di Bieno”, come li chiama la stampa locale. Camillo Santambrogio, di 84 anni, e Otto Dellamaria, di 83, due o tre volte a settimana fanno escursioni di 10-20 chilometri con dislivelli di 1000-2000 metri, partendo da questa località. E quelli che si accodano non riescono a stargli dietro.
      Come sarebbe a dire “che merito hanno avuto?” Non sono “mostri di Natura”: definizione troppo comoda per il rag. Rossi stravaccato in poltrona davanti alla tv, e per i tanti che non sanno vivere. Hanno e hanno avuto la rara intelligenza, propria del Naturismo, di utilizzare in modo razionale quello che la Natura ci ha messo a disposizione, e che la totalità degli uomini non sa usare. Il corpo. E se non sanno usare il corpo, che è una funzione relativamente facile, figuriamoci la mente! 
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Ecco l’articolo del Corriere della Sera su Colò (Cesare Giuzzi,10 settembre 2012):
IL CENTENARIO CHE NON VOLEVA SMETTERE DI FARE L’ATLETA

“Ha scelto di fermare il tempo. Gli anni, che a novembre sarebbero stati 101. I secondi, contro i quali aveva combattuto in pista, nella sua seconda vita da atleta. Una fila di record del mondo e venticinque primati nazionali nella categoria Master. Sette medaglie ai Mondiali per veterani del 1997 in Sudafrica. Vittorio Colò ha corso fino al 2006 quando aveva 95 anni. L'ultimo record è di due anni prima: tre metri nel salto in lungo nella categoria over 90. Ieri, poco dopo mezzogiorno, è uscito dalla sua casa di via Pergine, davanti al Monte Stella al quartiere Qt8. Ha percorso poche centinaia di metri a piedi, è entrato nella chiesa dedicata a Santa Maria Nascente e s'è sparato un colpo di pistola alla testa.
      Un unico, letale, proiettile dall'arma che per anni aveva regolarmente denunciato. Sul pavimento, appoggiati con ordine e cura: la carta d'identità, un foglietto con il nome e il numero del cellulare del figlio, una serie di lettere indirizzate alla famiglia. La grafia ferma, poche parole per chiedere scusa. Nessuna motivazione, solo la stanchezza - come ricorda il figlio arrivato in parrocchia assieme alla moglie - per una vita che stava presentando il conto: «Da quando aveva smesso con lo sport era iniziato un lungo malessere, non una depressione. Ma qualcosa gli mancava. Un anno fa, dopo la festa per i 100 anni, con l'Ambrogino d'Oro del Comune, sembrava essere tornato più solare. Poi il calo fisico s'era fatto sentire, non lo accettava».
      La sua gioventù era durata fino ai 95 anni, senza invecchiare mai, correndo a 89 anni i 100 metri in 16 secondi e mezzo. «Era la sua vita, adorava confrontare statistiche e record - spiega il figlio -. Viaggiava per il mondo e non smetteva di allenarsi». Non un eterno ragazzo, nessun patto con il diavolo. «Sapeva che il tempo non lo avrebbe risparmiato. Non era Dorian Gray, sfidava la mente e il fisico, non la vita», racconta chi si allenava con lui nel centro XXV Aprile. Il campo d'atletica che intravedeva dalla finestra del suo balcone. Lì dove tutto era in qualche modo cominciato.
Colò, nato il 9 novembre 1911 a Riva del Garda (Trento), da studente del liceo venne arruolato per il Gran premio dei giovani. Era il 1929. Una gara, poi subito la finale nazionale del pentathlon. I record regionali e gli anni nelle fila della gloriosa scuola d'atletica Quercia di Rovereto. Infine il trasferimento forzato a Milano per gli studi universitari (Chimica) e il lavoro in una grande industria. Lo stop con l'atletica «a malincuore», come racconterà lui stesso in un'intervista ad una rivista dedicata al mondo della corsa: «Arrivavo quinto o sesto nazionale, non aveva senso proseguire». Un amore interrotto, ma mai sopito. Dopo la pensione il ritorno sulla pista grazie alla storica associazione sportiva milanese Atletica Riccardi. Prima come allenatore: conseguì il «patentino» e iniziò a lavorare con i ragazzi due giorni a settimana. Inventò i corsi di avviamento all'atletica. Suo allievo è stato Andrea Colombo, finalista nella 4 x100 ai Giochi di Sydney. Poi le gare Master, una sorta di grande campionato mondiale diviso per fasce d'età. Colò le ha scalate tutte fino, appunto, alla M95 dedicata agli ultranovantenni. Vittorie, podi e record tanto da farne diventare un personaggio internazionale. Interviste, servizi fotografici, perfino la Rete che impazzisce per quello che ribattezzano «il nonno sprint». Di lui si sono innamorati anche i giornalisti sportivi del Mundo , dopo una gara in terra di Spagna. Colò è un atleta forte e invincibile, con le dovute proporzioni, come Usain Bolt o Michael Phelps.
      Accanto, dopo il matrimonio celebrato quando aveva cinquant'anni, la moglie Enrica. Un unico figlio, che oggi lavora in Università, due nipoti. Proprio la moglie oggi sarebbe dovuta tornare a casa dopo una degenza ospedaliera. Non è più autosufficiente, ha bisogno dell'assistenza di una badante. Vittorio Colò, invece, continuava se non altro a camminare. A quasi 101 anni ogni mattina andava fino all'edicola di via Isernia, poi al parco di piazza Santa Maria Nascente, con le panchine, l'ombra e gli amici con i quali perdersi ancora in chiacchiere e discussioni. E la chiesa, edificio moderno che somiglia a un'enorme capanna, frutto di un progetto bandito dalla Triennale nel 1947. Nel cortile pieno di sole quattro macchine dei carabinieri, sotto il porticato il parroco don Carlo Casati con i parenti. È stato don Carlo a dare l'allarme. Dentro, le pareti di mattoni rossi che si susseguono in un enorme motivo geometrico e le panche di legno scuro. Sul pavimento il corpo di Colò e la pistola. Il suo cuore d'atleta s'è fermato in un istante”. 


JAZZ. Il grande e ancora quasi misconosciuto arrangiatore e pianista Tadd Dameron, anima dell’hard-bop, col suo Sestetto con Fats Navarro in Our Delight (1947). Fats Navarro trumpet, Ernie Henry alto sax, Charlie Rouse tenor sax, Tadd Dameron piano, arranger, Nelson Boyd bass, Shadow Wilson drums. Ancora in sestetto con Fats Navarro in Lady Bird dal vivo al Royal Roost (1948). Fats Navarro trumpet, Allen Eager tenor sax, Rudy Williams alto sax, Tadd Dameron piano, Curly Russell bass, Kenny Clarke drums, Chano Pozo bongos. E infine, stessa seduta, in Good Bait (1948). L’annunciatore è il celebre Symphony Sid, il primo disc jokey del jazz, il bianco che ha avuto il merito di far conoscere con la radio tanto jazz (specialmente nero) degli anni 40 e 50 a chi non poteva permettersi di comperare i dischi.

AGGIORNATO IL 24 APRILE 2017

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