25 novembre 2016

LAUREATI? Sempre meno. E non sono troppo diversi dagli altri per incultura.

Una laurea non fa di una persona senza qualità un genio (e neanche un colto o un erudito), e viceversa chi non ha la laurea non è detto che sia poco intelligente o un cialtrone. Fatto sta che Guglielmo Marconi, Jack London, Eugenio Montale, Thomas Edison, Ernest Hemingway e Benedetto Croce, solo per fare pochi esempi, non erano laureati; mentre qualsiasi ragazzotta-o in carriera lo è o dovrebbe esserlo oggi, fosse pure una laurea triennale, per non contare i più vari “master” di specializzazione. E molti giornalisti non laureati (sono la maggioranza: p.es. Biagi) si sono dimostrati comparabili, se non più bravi, di tanti laureati.
      Ma almeno la laurea (quella "lunga", più completa, che impone più metodo, più sacrifici), nonostante il degrado culturale e l’appiattimento degli studi universitari che tocca anche la qualità stessa delle lauree, a parte i casi in cui è davvero un “requisito minimo”, appunto minimo, indispensabile per garantire uno standard statistico medio di affidabilità accettabile per non nuocere agli altri (chimica, medicina, ingegneria civile, diritto ecc.) è la prova – unica – di un metodo. Cioè? La laurea è semplicemente la prova che la persona, qualunque sia la laurea, sa studiare, è capace di discriminare rapidamente tra testi seri e poco seri, ovvero ha un forte senso critico sia nella materia sia in generale, sa trovare le prove scientifiche di quello che afferma, sa riferire lo “stato dell’arte” in materia, oppure, se non è aggiornato e negli anni si è lasciato andare e quasi è ricaduto nell’ignoranza, purtuttavia al bisogno saprebbe andare a cercare i testi giusti o gli studi nuovi per aggiornarsi rapidamente. Ecco a che cosa “serve” una laurea.
      Un quid in più che si nota ogni giorno, quando manca. Fateci caso: chi non ha laurea, qualunque laurea lunga, è più soggetto a interpretare male fatti e persone, a essere superficiale, a capire meno un testo complesso, a cadere negli equivoci, a dar credito a qualunque tesi o suggestione individuale, a mettere tutto sullo stesso piano, idee serie e tesi balzane, verità dimostrate e timori, dati certi e voci popolari. Un maligno potrebbe commentare: ma è un po' quello che fanno quasi tutti i cronisti, per i quali "una idea vale l'altra" essendo pur sempre una “notizia” una volta che viene espressa. Certo, ecco perché per un giornalista è poco importante essere o no laureato, dice qualcuno. No, ecco perché, proprio per un giornalista, sostengo io, sarebbe indispensabile una laurea severa, proprio per selezionare e scegliere meglio le notizie, e dare il giusto peso a una tesi.
      Insomma, la laurea è utile proprio oggi, in tempi di sottocultura di massa, di "superficialità veloce", col proliferare della disinformazione, ora che libretti autoprodotti e internet permettono a chiunque di diffondere notizie o “spiegazioni” su cibo, politica, storia, scienza, medicina ecc. creando leggende metropolitane e mistificazioni d’ogni genere. Anche se con la crisi del lavoro intellettuale spesso i laureati vanno ad affollare l’insegnamento, la pubblica amministrazione, le professioni, e perciò uscendo dagli studi attivi potrebbero perdere l’abitudine al vaglio critico, oppure si rintanano nell’Università, lontano dai clamori del Mondo e dal mondo degli adulti, spesso luogo di scontro o concorrenza sleale con altri docenti, quando non accademia bolsa e conservatrice come ripeteva Croce, un luminoso esempio di “non laureato” proprio per un’aristiocratica e selettiva concezione della cultura e degli studi, un intellettuale che studiò, e con metodo ultra-rigoroso, tutto il giorno, tutta la vita.
      Ma essere ultimi per numero di lauree (24% Italia, nella fascia di età 25-34 anni, contro il 41% della media dei 34 Paesi Ocse), secondo una ricerca dell’OCSE (2015) riportata dai giornali, come capita all’Italia che fu il primo Paese al Mondo a fondare un’Università degli Studi e ad avere perciò i primi laureati, è il segno di un ambiente intellettuale, scolastico e culturale degradato, un pessimo sintomo di decadenza, perfino morale. Che gli Italiani di oggi, ben diversi dai colti Grandi Uomini dell’Italia del passato di cui ci vantiamo sempre ipocritamente, non amino studiare e perfino leggere, si era capito da tempo. Ma questa è la base intellettuale, sociale e starei per dire antropologica della nuova Democrazia di massa: vuole uomini mediocri e ignoranti; anzi, troppi intellettuali – con il loro esasperato senso critico, figuriamoci – sarebbero d’impaccio.
      Così, il tessuto psicologico e sociale della popolazione dominante è totalmente invertito rispetto all’Antichità etrusco-romana o rinascimentale: in pratica è come se, grazie al suffragio popolare, proprio quei servitori e contadini muti e senza idee che vivevano ai margini della società al tempo dei colti (i “laureati” dell’epoca) Cicerone e Seneca, Machiavelli e Leon Battista Alberti, oggi fossero al Potere e risultassero determinanti in ogni sia pur piccola scelta nella società. Una vera e propria regressione parallela, cioè doppia (la maggioranza conquistata dal popolo senza titoli di studio, e l’inizio della decadenza della qualità stessa degli studi e dei titoli accademici) che in Italia può esser fatta convenzionalmente iniziare attorno al 1912 (“Patto Gentiloni” che convinse le masse cattoliche a partecipare al voto).
      Non che basti un titolo di studio elevato, ripeto, per garantire cultura (non solo generale, spesso carente, ma specialistica) e tanto meno un vigile senso critico ogni giorno e per tutta la vita. Soprattutto in situazioni imprevedibili o di stress. Basta assistere a certi dibattiti televisivi. Dove, però, le pecche evidenti dei “laureati” o assimilati sembrano dovute più a deficit di carattere, cioè all’eventuale ruolo psicologico dell’emotività o faziosità. o alla lentezza o inadeguatezza nell’altercare, che a carenze di personalità, cioè di intelligenza, idee e cultura. Fatto sta che spesso nella vita quotidiana, a sentirli parlare, ragionare, argomentare, prendere posizione, i laureati, i professori universitari, gli “esperti”, fanno imprevedibilmente una modesta figura; tanto che molti di loro, e non i migliori, quando si vedono costretti a confrontarsi con la gente qualunque o appaiono in televisione devono sopperire con l’altezzosità, l’arroganza o la prosopopea, “atteggiamento – dice un dizionario – improntato a una presuntuosa e talvolta ridicola gravità”, che altro non è che un recinto di protezione che dovrebbe difenderli con un’opportuna distanza dalle critiche del popolo per definizione ignorante.
      Di fatto, osservando come parlano e soprattutto come discutono e litigano gli Italiani, a quali argomenti di "prova" ricorrono per vincere in una qualsiasi contesa, la prima apparenza è che tutti, laureati o no, colti e incolti, siano infantili e sottoculturali, emotivi e illogici, faziosi e intolleranti delle ragioni dell’altro. Non solo al bar, ma soprattutto nelle famigerate trasmissioni "corrida" in tv, e perfino in Parlamento, per modo di argomentare, cultura e "logica" aberrante (tipico è il procedimento di passare rapidamente da un argomento sul quale si sta perdendo o non si ha più nulla da dire a un altro del tutto imprevedibile), constatiamo spesso che tra uomo della strada e politici di non c'è differenza. Solo che il primo è peggiore per faciloneria, i secondi sono peggiori per arroganza.
      Laureati o no, anche su internet e Facebook, come si capisce dall’insofferenza per la lettura di testi che superino le 10-20 righe o poco più, dal rifiuto della lettura in genere, specialmente storica e saggistica, e anche dai grossolani equivoci e commenti sottoculturali, è evidente che molti hanno perfino difficoltà a capire al volo il significato complessivo d’un periodo o d’una frase appena un po' articolata (p.es. con analogie, paralleli ironici, frasi subordinate, qualche “ma”, “tuttavia”, “d'altra parte” ecc.). Di qui risposte rapide ed emotive, polemiche, qui-pro-quo ecc. E succede, dicono alcuni studi scientifici, anche agli esami di abilitazione di insegnanti di lettere!
      Ma probabilmente in questa grave carenza influisce la scarsa abitudine alla parola, scritta per gli incolti totali, parlata per i colti, scritta e parlata per i laureati d’annata ricaduti in una sorta di analfabetismo funzionale. Dopotutto – rivelavano altri studi – gli Italiani, e i cittadini dei Paesi cattolici in genere, hanno scarsa dimestichezza sia con le assemblee e le discussioni in pubblico, sia con la rapida interpretazione di un testo un poco complesso, anche per i limiti di alfabetizzazione nelle aree marginali e lo sfavore con cui la Chiesa tradizionalmente ha visto la lettura dei libri presso il popolo, nel timore che vi si diffondessero idee illuministiche, libertine o rivoluzionarie o ateistiche (“Li libbri, fiji, nun li leggete”, fa dire al classico prete ultra-conservatore G.G. Belli nei suoi Sonetti, ancora a metà Ottocento). Forse è il retaggio di queste oscure paure reazionarie tipiche della sottocultura cattolica che domina l'Italia dalla fine del Fascismo che siamo agli ultimi posti anche per spesa pro-capite per istruzione rispetto al Prodotto Interno Lordo (v. secondo grafico Ocse). E in effetti, gli Anglosassoni protestanti e gli Ebrei, che sono sempre stati in grado di prendere la parola in pubblico in qualche associazione o in parrocchia o in sinagoga, e anche di interpretare personalmente la Bibbia, hanno, all'opposto, sempre dato la massima importanza alla scuola, alla cultura e al merito dell'intelligenza, con risultati evidentissimi anche nel numero di premi Nobel assegnati.

IMMAGINI. 1. Numero di Laureati nei 34 Paesi della OCSE (2015). 2. Percentuale di Prodotto Interno Lordo destinata all'istruzione nei Paesi europei.

AGGIORNATO IL 2 FEBBRAIO 2017

10 novembre 2016

DEMOCRAZIA USA. La Clinton ha più voti dai cittadini, ma è eletto Trump.

Da liberale e democratico non mi piace ogni sistema elettorale che non rappresenta la volontà dei cittadini, volontà che dovrebbe essere il fondamento elementare di una Democrazia, specialmente quando arriva a falsare addirittura i risultati di una votazione importantissima, quella del Presidente americano. Ebbene, nella consultazione dell’8 novembre 2016 per l’elezione del successore del presidente Obama, il famigerato tradizionale “sistema USA” di voto, mediato dai cosiddetti Grandi Elettori dei vari Stati, ha fatto un poco violenza alla volontà dei cittadini, aggiungendosi alla grande violenza che i cittadini, tutti, si sono fatti da sé con la propria ignoranza ed emotività.
      Dopo la vittoria del repubblicano ultra-conservatore Trump, molti che non conoscono quel complicato sistema elettorale (a cui purtroppo si informano anche i sistemi europei, visto che il peggio, purché dagli Usa, viene sempre copiato) si sono meravigliati molto nell’apprendere che in realtà (a tener conto del voto dei cittadini) è stata la candidata democratica Hillary Clinton ad avere vinto. C’è poco da discutere, i numeri parlano chiaro: secondo i dati finali diffusi da Dave Wasserman del Cook Political Report, Hillary Clinton ha ricevuto dai cittadini degli Stati Uniti ben 66.584.461 voti (pari al 48,6%), mentre Donald Trump, il "Presidente eletto", ne ha ottenuti 62.979.636 (45,9%), ovvero quasi 3 milioni in meno (dati non definitivi)..
      Tre milioni di voti non sono pochi né irrilevanti in una competizione a cui partecipano pochi cittadini, ormai una minoranza. L’affluenza al voto, infatti, sarebbe stata, da fonti televisive (dato provvisorio) pari a poco più del 50%, ma non riferita all’intera popolazione, e neanche al corpo elettorale, ma solo ai cittadini che si erano iscritti nelle liste (operazione laboriosa negli Stati Uniti e che vuole la richiesta esplicita, insomma un comportamento attivo con incombenze burocratiche, del cittadino). È da ritenere perciò che per larga approssimazione solo un terzo degli aventi diritto al voto abbia votato.

Il ruolo dei candidati di disturbo: oltre 5 milioni di voti, per lo più anti-Clinton
      Alcuni osservatori di cose americane guardando le cifre avanzano l'ipotesi che non Trump, ma i candidati minori o di disturbo siano stati determinanti a spese della Clinton. E' un atteggiamento psicologico ben noto: non avendo nessuna possibilità di vincere avrebbero preferito vendicarsi della propria impotenza facendo perdere uno dei candidati, dimostrando così in qualche modo di esistere politicamente. In Italia lo facevano anche i gruppuscoli a sinistra del Pci e del Pds. Nelle ultime elezioni americane i candidati di disturbo, di ogni provenienza ma in realtà quasi tutti contro la Clinton, hanno totalizzato il 5% dei voti popolari e  scrive il politologo e americanista Massimo Teodori su Huffington Post  sono stati determinanti in ben 5 Stati dell'Unione: «I seguenti stati sono stati vinti da Trump con un margine infimo di voti popolari: Michigan (0,27%), New Hampshire (0,37%), Wisconsin (0,93), Pennsylvania (1,24%) e Florida (1,27%). In tutti questi Stati, i "terzi partiti" hanno ottenuto intorno al 3%-4%». 
      Insomma se il libertario ex-repubblicano Johnson (oltre 4 milioni di voti, mica spiccioli, e molti provenienti anche dal bacino elettorale dei Democratici), la ecologista Green (un milione e 200 mila voti, tutti sottratti ai Democratici) e altri minori avessero rinunciato; e soprattutto se gli elettori – immaginiamo giovani ed emotivi – non li avessero votati disperdendo i voti, l’odiosa-odiata ma esperta e democratica Clinton sarebbe stata eletta Presidente degli Stati Uniti al posto del cialtronesco e imbarazzante Trump. Che perciò deve ringraziarli, insieme ai giornali, alle tv e ai frequentatori di Internet e dei social forum che lo hanno "lanciato" e favorito come sostenitori o anche solo per averlo messo in burletta ripubblicando foto e gaffes. E' una legge della comunicazione di massa: più si critica citando testi e pubblicando foto scandalose, più si fa pubblicità alla persona criticata.. 
      E invece quegli elettori marginali ma determinanti hanno ottusamente votato “secondo coscienza”, senza sapere che in Democrazia contano gli effetti del voto, più del voto stesso, e che la coscienza deve occuparsi di quelli più che di questo. 
      Ma di questi candidati ed elettori marginali nessun opinion maker sapeva nulla, neanche la stessa Clinton, che ha speso milioni di dollari per la campagna elettorale e i sondaggi? Neanche i giornalisti e i commentatori avevano informazioni riservate? E allora perché non hanno parlato, che dico, messo in guardia? Insomma, deve essere stata una lotta di stupidi contro stupidi. E ha vinto il meno stupido e il più fortunato: Trump

Il complicato e irrazionale sistema elettorale americano
      Negli Stati Uniti le elezioni del Presidente sono elezioni di secondo grado. Prima i cittadini eleggono i Grandi Elettori, poi questi delegati eleggeranno in un secondo momento il Presidente. I Grandi Elettori, eletti in ciascuno Stato con sistema maggioritario (il partito che ottiene anche un solo voto in più si prende tutti i Grandi Elettori), sono 538 (numero pari alla somma di senatori, che sono 2 per ogni Stato, e dei deputati, che variano a seconda dei residenti, oltre ai rappresentanti del Distretto di Columbia, la capitale Washington). Per diventare presidente bisogna raggiungere la maggioranza assoluta dei voti dei Grandi Elettori, cioè almeno 270.
      Ogni Stato ha i propri criteri per candidare i Grandi Elettori. Di solito vengono premiati in questa occasione coloro che più si sono spesi nella campagna elettorale per il partito o personaggi simbolo o molto popolari: quindi tra di loro ci può essere chiunque, dall’avvocato locale al militante paladino dei diritti civili, fino al cantante rock. La California, come Stato più popoloso, ha avuto nel 2016 il maggior numero di Grandi Elettori (55), seguita dal Texas (38) e dalla Florida e New York (29). Se, p.es., il candidato democratico vince (ha più voti dei cittadini) in Florida, si prende tutti e 29 i Grandi Elettori a disposizione dello Stato, scelti però nella lista fatta in precedenza dai democratici, non in quella repubblicana. Ma il bello è che solo 24 Stati hanno una legge che obbliga i propri Grandi Elettori a seguire il voto popolare. Alcuni delegati, perciò, potrebbero anche tradire il voto popolare e cambiare voto: è successo, anche se raramente.
      Fatto sta che con questo arbitrario e complicato sistema, dei 538 Grandi Elettori totali in questa elezione ben 306 sono andati a Trump e solo 232 alla Clinton. Un “effetto paradosso”, visto che quest’ultima aveva riportato più voti da parte dei cittadini.

Le proteste del regista e opinion maker Michael Moore
      Invece negli Stati Uniti il sistema elettorale è tabù: nessuno ne parla, dandolo per scontato, immodificabile. Tanto meno protesta. Solo il combattivo regista e opinion maker democratico Michael Moore, nella sua pagina Facebook, ha sollevato il problema esortando i cittadini democratici a non considerarsi sfortunati o perdenti, ma a comportarsi sapendo di essere maggioranza nel Paese:
      «Tutti devono ripetere a quelli che incontrano oggi questa frase [in maiuscolo nel post, NdR]: “Hillary Clinton ha vinto il voto popolare”» ha scritto Moore, che così continuava: «La maggioranza dei nostri concittadini americani ha preferito Hillary Clinton, invece di Donald Trump. Se vi siete svegliati stamattina pensando di vivere in un Paese fregato, state sbagliando. La maggior parte dei vostri concittadini Americani voleva Hillary, non Trump. L'unico motivo per cui Trump è presidente è per una folle, oscura, idea del 18° secolo chiamata Collegio Elettorale uninominle. Finché non cambieremo le cose, continueremo ad avere presidenti che non abbiamo eletto e non volevamo».
      In effetti, per il paradossale e ingiusto sistema uninominale secco americano (lo stesso che i nostri Radicali volevano importare per “filo-americanismo” estremo e provocatorio) nessun altro oltre il combattivo e irruento Michael Moore ha protestato, dopo e tanto meno prima delle elezioni, quando certamente sarebbe stato più corretto farlo. Anche se Moore potrebbe rispondere che protesta solo ora, proprio perché ha constatato che, malgrado un non irrisorio margine di voti popolari a lui contrario, si è imposto un candidato che probabilmente intaccherà diritti, prevenzione, sanità e stato sociale, tutte cose per le quali è auspicabile essere eletti a larghissima maggioranza, anche del voto dei cittadini.
      Solo il Partito Democratico si è complimentato con la Clinton per i “tanti voti popolari" avuti, guarda un po'. Come se il voto diretto dei cittadini fosse una cosetta secondaria in Democrazia, dove si può vincere anche per un solo voto...
      E invece tutti a straparlare di Grandi Elettori, Collegi e Stati, di complesse e arzigogolate alchimie e, magari, chissà, di adesioni politiche con voti di scambio. In barba ai cittadini.
Che cosa c'entrano gli Stati e i Collegi locali, con l'elezione non di senatori locali, ma dell’unica carica che unifica e, appunto, rappresenta tutta la Federazione, quella del Presidente degli Stati Uniti? Nulla.
      Insomma, è chiaro che negli USA c'è un significativo gap tra cittadini e rappresentanti, e che il metodo obsoleto di voto dovrebbe essere cambiato. Certo, siamo consapevoli della complessità del vasto e variegato mondo americano, ma auspichiamo la mera addizione nel computo dei voti popolari almeno per l'elezione del Presidente, visto che proprio in questa occasione tutto il popolo americano si riunisce per votare. Se deve essere il Presidente di tutti e non un mero coordinatore degli Stati singoli, allora deve essere votato tenendo conto esattamente dei voti di tutti i cittadini, non degli Stati
      Altro che “una testa, un voto”, come intendevano agli albori della Democrazia i Padri Costituenti europei e americani, sia pure con le cautele e paure già dette.

Una petizione in extremis perché i Grandi Elettori votino diversamente
      Intanto, negli Stati Uniti, molti cittadini colpiti dall’elezione di un personaggio così manifestamente inadatto all’altissima carica di Presidente, tanto da essere non solo imbarazzante ma un vero pericolo per la democrazia e la libertà dell’Occidente, una petizione popolare su Change.org – riferisce un articolo del Fatto Quotidiano – ha raccolto oltre due milioni di firme, rivolgendo ai Grandi Elettori che si riuniranno il 19 dicembre l’invito disperato a non votare Trump, ma la Clinton, perché Trump è “inadeguato” alla carica presidenziale: “La sua impulsività, la sua abitudine alla prepotenza, a mentire, i suoi trascorsi di molestie sessuali e la profonda mancanza di esperienza lo rendono un pericolo per la Repubblica“. Anche se è improbabile, teoricamente un simile tradimento sarebbe possibile, e perfino nei 24 Stati dove è vietato, ci sarebbe solo una piccola multa in caso di “tradimento” del voto.

Uno dei Padri Fondatori (1788): i Grandi Elettori creati per evitare le decisioni pazze del Popolo
      Parole che rimandano alla prudenza e alle paure che manifestarono sui rischi del voto popolare diretto gli stessi Padri Fondatori americani. Uno di questi, Alexander Hamilton, nel 1788 su The Federalist definendo le ragioni dell’esistenza del Collegio elettorale, aveva chiaramente spiegato che si trattava di uno strumento intermedio creato proprio per timore della democrazia diretta e per tutelare l’onorabilità della Presidenza, a evitare la “tirannia delle masse”. Perché il popolo, scriveva, “raramente giudica o decide nel modo giusto”. Invece, con l’intermediazione del Collegio dei Grandi Elettori tra il voto popolare e la Casa Bianca, “la carica di Presidente non finirà mai nelle mani di un uomo che non sia dotato in massima misura dei requisiti indispensabili”. Davvero illuminante questa diffidenza, ancora aristocratica e settecentesca (chi l’avrebbe immaginato, a parte gli studiosi di storia politica americana?), nei Padri Fondatori del Federalist. Ed erano ben altri tempi, con la società di massa ancora di là da venire! Figuriamoci che cosa penserebbero della democrazia populistica di oggi e della sua vera e propria “dittatura delle masse”.
      Però, con tutto il rispetto per il Padre Fondatore Hamilton, vorrei ricordargli (mentre si sta rivoltando nella tomba al pensiero che un tipo come Trump stia alla Casa Bianca) che, sì, ha ragione nel temere i colpi di testa del voto popolare, ma stavolta, la distorsione evidente (il voto a un uomo di nessuna esperienza e impresentabile) è creata non dal voto popolare, ma proprio dal Collegio di elettori intermediari da lui giustificato.
      Comunque, per il suo programma e per le esternazioni espresse in campagna elettorale, secondo l’elettorato democratico Donald Trump non ha quei requisiti minimi a cui accennava Hamilton. Del resto, aggiunge la petizione, non ha vinto il voto popolare. Ora la petizione spera – conclude Il Fatto – che sia pure in extremis Trump non vinca neanche le elezioni da parte del Collegio dei Grandi elettori.

E in Europa? Crisi del voto maggioritario e del bipolarismo: tornare al proporzionale
Soprattutto in Italia, ma ormai un po' in tutta Europa, dove vigono soprattutto i sistemi parlamentari e non presidenziali, sono il sistema maggioritario, il personalismo e il bipolarismo a essere sotto accusa: sono fonte di gravi distorsioni della volontà popolare e di ingiustizie politiche. Eppure la classe dirigente fa orecchie da mercante. Poi non si lamenti della crescente disaffezione dei cittadini, che sempre meno si occupano di politica e si recano a votare.
      Secondo noi, la terapia al caos e al populismo è una sola: tornare al voto proporzionale puro. Sarebbe la scelta più semplice e naturale, da che mondo è mondo: "una testa, un voto". Sistema tra l'altro facilissimo da calcolarsi, immune da trucchi ed errori di conteggio, e comprensibile immediatamente dai cittadini. E' l'unico onesto, perché veritiero sugli umori e i cambiamenti di idee dei cittadini.
      Ma a parte la riproduzione fedele del parere dei cittadini, il sistema proporzionale ha anche un valore altamente liberale e democratico, perché per fare le maggioranze costringe le forze politiche al dialogo costruttivo e agli accordi, dimostrando che la lotta politica in un sistema liberale vede nei contendenti non nemici o dominatori assoluti ed esclusivi l'uno dell'altro, ma soggetti dialoganti concorrenti su un piano di parità e correttezza.
      E poi il sistema di voto proporzionale agisce anche da preventivo verso le patologie sempre più gravi della democrazia moderna. La prima delle quali è il rischio di ridurre tutta la contesa politica a una sfida da Far West tra due candidati che inevitabilmente, vista la contrapposizione plateale e personalistica, inevitabile nel sistema uninominale e maggioritario, finiscono per essere due demagoghi sedicenti “carismatici”, senza idee originali o populisti. Le vicende politiche di parecchi Stati europei, Italia compresa, parlano chiaro dei limiti gravi e del carattere politicamente diseducativo e spettacolare del sistema all’americana, addirittura scimmiottato inserendo il nome del candidato Presidente (o della Repubblica o del Consiglio dei Ministri) direttamente sul logo dei partiti competitori e della scheda elettorale.
      È ora, perciò, di dire basta a queste americanate che non funzionano neanche in America! Torniamo al voto proporzionale, semplicemente sommando i voti individuali “un cittadino, un voto”. Facciamo la normale somma dei voti dei cittadini, senza arzigogoli e trucchi complicati. Questo spingerà i Partiti alle coalizioni, al bilanciamento, ed eviterà i colpi di testa, il massiccio voto di protesta e gli inquietanti personaggi, o totalmente inesperti o carismatici.
      Davvero, non è solo colpa del Populismo e della Demagogia, ma anche dei sistemi elettorali furbi o sbagliati se la democrazia sta andando in rovina e la politica è così screditata.

AGGIORNATO IL 21 DICEMBRE 2016